Affari&Finanza, 22 gennaio 2018
Il mistero del nuovo debito una mina da 55 miliardi nei conti da qui al 2020
È il trauma rimosso dei nostri conti pubblici. È il problema apparentemente irrisolvibile che si cerca di scansare dal dibattito politico, soprattutto in vista delle urne. Stiamo parlando del debito pubblico, il convitato di pietra dell’economia italiana: spesso si fa finta che non esista, ma la sua presenza è sempre lì, incombente più che mai. Certo, il 2017 dovrebbe regalarci per la prima volta, secondo il Tesoro, una sua flessione in rapporto al Pil, anche se la Commissione europea non ci crede. Sta di fatto che, nonostante i possibili progressi, quel rapporto resta pur sempre uno dei più alti del mondo, caparbiamentte al di sopra del 130 per cento. <p>Marco Ruffolo segue dalla prima M a fin qui, nulla di nuovo. Sennonché si presenta adesso un problema aggiuntivo, segnalato dall’ex commissario alla spending review Carlo Cottarelli, con un’analisi del suo Osservatorio conti pubblici italiani. Nei prossimi tre anni, svela Cottarelli, il Tesoro prevede un aumento del debito pubblico che si spiega solo in parte con l’accumularsi del deficit. C’è un “di più” che resta in gran parte misterioso, un’incognita che rende ancora più difficoltoso il risanamento dei conti pubblici e ancora più anacronistiche le promesse elettorali di nuove spese e di colossali riduzioni di tasse, lanciate soprattutto dalle opposizioni. Come nasce il debito Due parole, innanzi tutto, per capire come si forma il debito. «Se le spese pubbliche superano le entrate, cioè se c’è un deficit – spiega Cottarelli – lo Stato deve prendere a prestito la differenza, e il debito aumenta. Dunque, in prima approssimazione, il debito dovrebbe salire in misura pari al deficit. Se all’inizio dell’anno il debito è 100 e il deficit è 3, alla fine il debito dovrebbe essere 103». Ma non è sempre così. Ci sono operazioni che incidono su una delle due grandezze, ma non sull’altra. Una di queste è costituita dai derivati. In tempi di tassi in aumento, i precedenti governi, per proteggersi da potenziali perdite dovute a interessi più salati da pagare, hanno fatto accordi con le banche in base ai quali se i tassi fossero aumentati ci avrebbe guadagnato lo Stato italiano e perso le banche, e viceversa in caso di una loro riduzione. Quando i tassi hanno cominciato a scendere, il Tesoro si è trovato a dover pagare svariati miliardi alle banche. Questa spesa va ad ingrossare il debito, ma non rientra nel calcolo del deficit. Il fattore banche Così come non vi rientrano le operazioni di sostegno alle banche, alcune delle quali comportano l’acquisizione di quote di proprietà. E poi, ricorda Cottarelli, «ci si indebita anche per accumulare attività finanziarie» che servono per «mantenere un cuscinetto di liquidità a disposizione dello Stato sotto forma di depositi presso la banca centrale». Se salgono, aumenta il debito. A complicare le cose, interviene anche il modo diverso in cui vengono contabilizzati debito e deficit. Mentre il primo riflette i pagamenti di cassa, ossia tutto ciò che realmente viene speso in un certo periodo, il secondo è basato sulla competenza, cioè sugli impegni di spesa, che non coincidono temporalmente con i pagamenti. Può quindi capitare che, se durante un certo anno viene effettuata una spesa che però è stata decisa l’anno precedente, quella spesa peserà sul debito ma non sul deficit. Infine, anche le privatizzazioni giocano un ruolo importante: i loro introiti, possono essere utilizzati, infatti, per ridurre il debito senza cambiare una virgola del deficit. Più debito che deficit Ovviamente, entro certi limiti la discrepanza tra variazione del debito e deficit è del tutto fisiologica. A patto però che non sia sempre a senso unico (più debito che deficit) e soprattutto che resti contenuta in pochi miliardi di euro. Invece, guardando le previsioni del governo per i prossimi tre anni, non è affatto così. La sorpresa viene dalla Nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza 2017 del settembre scorso. Il deficit del triennio 2018-2020 sarà di 49 miliardi, mentre il debito salirà di 87. La differenza è di 38 miliardi. Ma quegli 87 miliardi di debito in più tengono conto anche dei prevedibili introiti delle privatizzazioni (17 miliardi). Al netto di quegli incassi, il debito crescerà ancora di più e la differenza con il deficit non sarà di 38 miliardi, ma di 55 (38 più 17). Il problema ora è capire quali sono le cause di questa crescita del debito non giustificata dal deficit. Perché aumenta così rapidamente, si chiede Cottarelli, e cosa sono questi 55 miliardi? Il Tesoro non ci aiuta un granché. L’unica spiegazione, che viene dal Documento di economia e finanza dell’aprile scorso, è che le operazioni sui derivati ci costeranno 11 miliardi. Stop. E il resto? Il resto è affidato a un unico dato tabellare contenuto nel Documento programmatico di bilancio 2018 dell’autunno scorso, il quale si limita a farci sapere che quest’anno la differenza tra debito e deficit sarà dovuta allo scarto tra cassa e competenza. Il che però non ci dice nulla sulle cause. Scrivere che nel 2018 (e probabilmente anche nei due anni successivi) le spese effettive supereranno quelle decise, può significare qualsiasi cosa. In quel maggior debito misterioso di 55 miliardi, si chiede Cottarelli, c’è per caso il sostegno che il governo prevede di dare alle banche? Oppure c’è un costo maggiore del previsto dovuto alle operazioni sui derivati? Picchi periodici Certo, se guardiamo agli ultimi vent’anni, questo fenomeno si è presentato altre volte, con picchi nel 1999, nel 2008 (anno di inizio della grande crisi) e nel 2012 (anno della grande stangata), ma con una differenza media tra variazione del debito e deficit che si è mantenuta sullo 0,75 per cento del Pil. Nel prossimo triennio, invece, quello scarto sarà pari all’1 per cento all’anno. E questo balzo è tanto più sorprendente in quanto fino a qualche tempo fa, ossia nel Def 2016, il Tesoro non prevedeva per il periodo 2018-2019 quasi nessuna differenza tra variazione del debito e deficit. È quindi a partire dallo scorso anno che il governo ha cominciato a stimare forti operazioni finanziarie extra-deficit. Ma oggi, a poco più di un mese dalle elezioni, e con una campagna elettorale punteggiata da mastodontici impegni di spese e di detassazioni, quella che potrebbe sembrare una diatriba economica per pochi addetti ai lavori rischia di trasformarsi in un vero e proprio caso politico. In queste condizioni, infatti, dice Cottarelli, «il nostro sentiero di riduzione del deficit sarà più difficoltoso, il che rende necessaria ulteriore prudenza nel formulare promesse elettorali». Sarebbe dunque fondamentale, continua l’ex commissario, che i partiti le accompagnassero con credibili piani di rientro dal deficit. E c’è infine da sperare che la futura maggioranza di governo non approfitti di questa forbice tra debito e deficit per nascondere nuove spese o mancati risparmi, ossia per mantenere almeno in parte le sue promesse. Gli economisti sanno bene che quando per lungo tempo la crescita del debito non è giustificata dall’accumulazione dei deficit, si accende una spia rossa, quella della contabilità creativa, con tanto di polvere sotto il tappeto destinata prima o poi a venir fuori. Quello che nel frattempo si chiede al governo è che faccia chiarezza sui 55 miliardi, proprio per disinnescare possibili strumentalizzazioni politiche, per richiamare tutti a un maggior senso di responsabilità, per non indebolire quella giusta battaglia che combatte in Europa affinché il risanamento dei conti non si trasformi di nuovo nelle lacrime e sangue dell’austerità. Cottarelli riassume tutte queste preoccupazioni in una semplice domanda: «Sarebbe troppo chiedere un po’ di trasparenza nei conti pubblici?».