La Stampa, 24 gennaio 2018
Il Pil del mondo cresce ma non è tutto oro
L’economia mondiale gode di buona salute. Questo è quanto ci dice il Fondo Monetario Internazionale nelle sue nuove previsioni di crescita pubblicate a Davos lunedì scorso («World Economic Outlook Update – Brighter Prospects, Optimistic Markets, Challenges Ahead»). Il Pil mondiale (quanto prodotto nel mondo) è aumentato del 3,7 per cento nel 2017, in accelerazione rispetto all’anno precedente. L’accelerazione è sincronizzata: in 120 Paesi che rappresentano tre quarti dei Pil mondiale la crescita nel 2017 è stata più alta di quella del 2016. Il Fmi prevede che la crescita aumenti ulteriormente fino a sfiorare il 4 per cento quest’anno e il prossimo. Crescono tutti, o quasi: sono spariti i segni meno nelle colonne del 2018-19 relative ai Paesi più importanti e alle diverse aree geografiche. Naturalmente, al primo posto ci sono, come accade da anni, la Cina e le altre economie asiatiche con tassi di aumento del Pil compresi tra il 5 e il 7 per cento. Ma anche i Paesi avanzati crescono a ritmi piuttosto elevati: l’area dell’euro è cresciuta del 2,4 per cento nel 2017, un po’ più degli Stati Uniti. Nel 2018 l’ordine si inverte: grazie alla detassazione di Trump (vedi sotto), gli Stati Uniti accelerano al 2,7 per cento, ma il tasso di crescita europeo resta buono (2,2 per cento). Anche alcuni Paesi emergenti in crisi negli ultimi anni (Russia, Brasile) sono tornati a crescere nel 2017. Insomma, per trovare un Paese in difficoltà occorre andarlo a cercare col lumicino (uno ce n’è: il Venezuela).
Ma dato che noi economisti tendiamo per professione a cercare quello che non va, qualche motivo di preoccupazione ce l’avrei.
Primo, c’è il senso di déjà vu: politiche monetarie molto espansive, tassi di interesse bassi, crescita delle quotazioni azionarie e del prezzo delle attività finanziarie, ricerca spasmodica di attività che promettono rendimenti decenti, al prezzo di un rischio più alto, e aumenti del Pil sopra la media storica. Ma non è la situazione che avevamo una decina di anni fa prima che la bolla del sub-prime scoppiasse e che ci portasse alla più grave recessione dagli Anni 30? Certo ci sono un po’ di differenze. L’indebitamento delle famiglie nei Paesi avanzati non sta crescendo così rapidamente come in quegli anni. Ma sta crescendo e resta comunque elevato; per non parlare del debito pubblico. Certo, i controlli sugli intermediari finanziari sono aumentati e le banche sono più capitalizzate di allora, ma importanti debolezze del sistema finanziario mondiale (la complessità, l’aumento delle banche «troppo grandi per fallire») restano irrisolti. In questa situazione, la risposta del sistema economico-finanziario a una normalizzazione dei tassi di interesse, che prima o poi avverrà, potrebbe essere sproporzionata, come lo fu nella seconda metà della scorsa decade.
Secondo, parte dell’accelerazione della crescita nei Paesi avanzati prevista per il 2018 è dovuta al pacchetto di tagli delle tasse promosso da Trump. Il Fmi ci dice che questa maggiore crescita sarà però temporanea. È legata a effetti di domanda, effetti «keynesiani»: il deficit aumenta, aumenta il Pil. Sottolineo: aumenta il livello del Pil, ma non si verificherebbe quell’aumento permamente del tasso di crescita che Trump spera sia causato dalla detassazione delle imprese. Il Fmi prevede un abbassamento del tasso di crescita americano già nel 2019 e, dopo il 2020, un ritorno del Pil al livello che sarebbe prevalso senza la detassazione. In altri termini, una detassazione in deficit ha comunque effetti temporanei sul livello del Pil, anche in un Paese come gli Stati Uniti che certo fronteggiano meno rischi di altri. Cosa da tenere a mente anche per valutare recenti proposte avanzate nel nostro Paese.
Terzo, la crescita salariale resta bassa nei Paesi avanzati e non ci sono chiari segni di recupero di quote di reddito per la classe media e medio-bassa, dopo le perdite subite negli ultimi decenni. È per questo che il rapporto del Fmi richiama più volte la necessità di fare in modo che la crescita che sia più «inclusive», cioè che non sia estesa solo ai più ricchi. Peccato che la riforma di Trump, secondo il Fmi, «riduca la tassazione media delle famiglie americane con reddito più alto rispetto alla tassazione della classe media e dei redditi bassi».
Un’ultima annotazione sull’Italia. Il Fmi ha alzato le previsioni di crescita per il 2018-19, in linea con la revisione verso l’alto dell’intera area dell’euro. Restiamo però ben al di sotto della crescita media dell’area e anche al di sotto, per il 2017, 2018 e 2019, della crescita dei tre altri maggiori Paesi dell’area, Germania, Francia e Spagna. Viste le nostre tendenze demografiche (la nostra popolazione cresce meno che altrove), in termini di reddito pro capite restiamo probabilmente agganciati alla media. Ma visto quanto abbiamo perso negli ultimi 20 anni, accontentarsi di non perder ulteriore terreno, se anche così fosse, non sarebbe sufficiente. Dobbiamo e possiamo fare meglio.