La Stampa, 24 gennaio 2018
«Il modello Usa può funzionare per l’Europa, non per la sola Italia». Monti: dal protezionismo un aiuto all’integrazione Ue
Sentirlo dire a Davos, fra gli stand ricoperti di neve di Facebook, Google, Palantir, Bank of America o Hsbc fa impressione. «La globalizzazione? È in declino». Michael O’Sullivan è il capo degli investimenti (irlandese) della svizzera Credit Suisse. Il grafico che accompagna il suo ragionamento è impietoso. Nel 2008, prima che la crisi dei mutui subprime si spostasse dagli Stati Uniti all’Europa, i flussi del commercio mondiale avevano raggiunto il loro picco, al 61 per cento della ricchezza globale. Negli ultimi sei anni il calo di quei flussi è costante. Visto da qui, Donald Trump è l’effetto di un fenomeno, non una causa. Fino a qualche anno fa il termine multilateralismo era usato solo in diplomazia. Ora identifica la risposta della politica al protezionismo.
A Davos economisti e uomini d’affari parlano di Europa e Stati Uniti come delle «angry countries», l’unica area del mondo in cui i salari sono scesi e le disuguaglianze aumentate. Lunedì, battendo sul tempo i colleghi capi di Stato che stanno sfilando a Davos, Emmanuel Macron ha invitato a Versailles 140 capi di grandi aziende e multinazionali al motto «investite in Francia». Cosa c’è di diverso fra il suo approccio e quello di Trump? «Moltissimo», dice a La Stampa il premio Nobel Joseph Stiglitz. «Una cosa è invitare a scegliere la Francia, altro è tagliare le tasse in funzione del rientro degli investimenti in patria. Trump ragiona da uomo d’affari, e non pensa nemmeno per un minuto alle conseguenze della sua manovra fiscale nel medio termine: le vedremo in un paio d’anni». Stiglitz è «in totale disaccordo» con le stime del Fondo monetario internazionale: teme l’esplosione del surplus commerciale e un aumento dei tassi tale da far venir meno la spinta agli investimenti anzitutto negli Stati Uniti. Alla domanda se Paesi come l’Italia potrebbero applicare una ricetta del genere Stiglitz si inalbera: «Assolutamente no. Per recuperare il terreno perduto in questi anni con la Cina non c’è bisogno di andare lontano: dovreste prendere ad esempio la Svezia». Meno tasse, uno stato sociale più leggero, ma grande apertura agli investimenti stranieri (anche quelli cinesi), alla concorrenza e all’innovazione. «Bisogna intendersi sul concetto di protezionismo», dice Mario Monti. «Ricordo ancora l’accusa che mi piovve addosso dall’altra parte dell’Atlantico quando ero commissario europeo e infliggemmo la maximulta a Microsoft».
Monti su Trump e l’Italia la pensa come Stiglitz, ma con la solita ironia cerca di vedere il bicchiere mezzo pieno: «I leader europei dovrebbero dire un grazie al presidente americano». In fondo non dice «Texas first» o «Vermont first», ma «America first». Per paradosso l’iniziativa protezionista ha lo stesso effetto virtuoso della Brexit: «L’Unione sente il bisogno di fare passi avanti nell’integrazione economica». E questo non potrà che far bene anche all’Italia.
L’economista di Harvard Kenneth Rogoff teme che la ricetta Trump faccia riemergere un fantasma del passato: l’iperinflazione. E spiega perché quel piano è inapplicabile ai Paesi ad alto debito: «Con stimoli così ci sono buone probabilità che i prezzi salgano rapidamente, e con essa i tassi di interesse. Se così fosse, cosa ne sarà del debito di Italia e Giappone?» E chi è uno dei più grandi possessori di titoli pubblici in Italia? Il fondatore di Carlyle David Rubinstein ricorda che quando suonano gli allarmi le barriere le alza chiunque: «Ciascuno vuole controllare i propri istituti. Pensate che Berlino farebbe mai fallire Deutsche Bank in nome dell’Unione bancaria?». Il numero due della Consob cinese Fang Xinghai confuta subito la tesi di Rubinstein: «Se in Cina si presentasse un problema per le banche non esiteremmo a intervenire con fondi pubblici». È come dice Monti: occorre intendersi sul concetto di protezionismo.
Twitter @alexbarbera