Il Sole 24 Ore, 23 gennaio 2018
Big data e algoritmi: l’economia digitale vale già 4,7 miliardi
In principio erano gli elenchi telefonici. Quei libroni suddivisi per provincia che contenevano cognome, nome, numero di telefono, indirizzo e in alcuni casi anche posizione lavorativa di milioni di italiani. Erano una fonte di dati basilare: la prima, in questa storia, travolta dalla digitalizzazione.
Digital direct marketing; programmatic; Dmp (piattaforme che raccolgono i dati e li analizzano); marketing automation hanno sostituito le funzioni svolte dalle società di raccolta dati che impacchettavano quelli contenenti negli elenchi e li vendevano al telemarketing. Succedeva una decina di anni fa.
L’incremento del mercato
Oggi il contesto è molto cambiato. Con l’esplosione di Internet e del mondo mobile la profilazione di un utente sfiora precisioni millimetriche. Il mercato dei dati personali in Italia ha già sforato il muro dei 4,7 miliardi di valore nel 2016. E secondo Idc toccherà quota 7,5 miliardi di euro entro il 2020 (con uno scenario “neutro”, si veda grafico in pagina), il quarto per valore in Europa dietro a Uk (20,4 miliardi), Germania (19,5) e Francia (11,9 miliardi).
Ma chi è che raccoglie i nostri dati? «Per semplificare – spiega Augusto Preta, di It Media Consulting che si è occupato del tema nel Rapporto “L’economia dei dati: tendenze di mercato e prospettive di policy” – ci si può concentrare su tre categorie di player operanti nel cosiddetto data ecosystem, riconoscendo che alcuni di essi potrebbero ricoprire più di un ruolo: produzione e raccolta; aggregazione; analisi. In Italia esistono decine di società che si occupano di raccolta e strutturazione dei dati». Il business, come detto, è in forte crescita. E di fianco alle italiane Consodata (gruppo Seat Pagine Gialle) e Cemit (di proprietà di Mondadori), oggi sono arrivati gli attori internazionali. Come i cinesi di Alibaba. «A Milano – racconta al Sole 24 Ore Fabio de Angelis, managing director di Accenture Strategy – sta trovando grande successo il free floating (le bici si prendono e si lasciano dove capita) con oltre 8mila bici. Il free floating è un successo istantaneo globale dei due principali player: Mobike e Ofobike, società nate in Cina da startup. Il bike sharing libero è, almeno in apparenza, un business in perdita anche considerate le tariffe del servizio (tra i 30-50 centesimi a corsa), ma alle aziende cinesi interessano i dati dei clienti. Non per niente, come riferisce Forbes, dietro Ofo c’è Alibaba, attraverso il suo affiliato finanziario Ant Financial. Per la crescita di un tale gigante dell’e-commerce la raccolta di dati sul commuting, le abitudini di shopping e la capacità di spesa e di credito di chi usa normalmente le biciclette per muoversi è indispensabile».
Come avviene la raccolta
Oggi la raccolta dei dati è gestita molto spesso da algoritmi in grado non solo di catalogare le informazioni, ma anche di strutturarle, così da renderle interessanti. Non c’è alcun dubbio che la principale fonte di raccolta dati sia la navigazione online. Un acquisto su un sito di e-commerce, un preventivo per una polizza auto, ma anche la semplice navigazione producono un’enorme quantità di dati che ci riguardano. Mediamente sono almeno ottanta le aziende che, grazie al comportamento online di un utente, riescono ad agganciare il suo indirizzo IP e a seguirne i passi, scoprendone affinità e abitudini. E in Rete esistono servizi come quello offerto dal sito youronlinechoices.com in grado di stabilire, per ogni indirizzo IP, quanto sia profondo il tracciamento dell’utente da parte di queste società.
Ma la raccolta avviene nei modi più disparati. Il direct email marketing, per esempio, si fonda sulla raccolta di dati di società perlopiù attraverso le newsletter. Pacchetti di informazioni vengono poi messe a disposizione di società – Magnews, Contactlab, Teradata solo per fare alcuni nomi – che tramite software li gestiscono e li analizzano, proponendo in molti casi anche progetti di comunicazione. «Senz’altro – spiega Florida Farruku, general manager di Diennea-MagNews, società specializzata in servizi di digital direct marketing, con sede a Faenza, attiva dal 1996 con 130 addetti – negli ultimi periodi le richieste delle aziende sono in aumento e sono cambiate. L’email marketing ha cambiato faccia e si tende a lavorare su strategie personalizzate possibili grazie a software ad hoc». Per Gian Mario Infelici, ceo & founder della Adabra di Arezzo, «Big Data e intelligenza artificiale sono la porta anche per fare cross-selling e upselling». Quello su sui la società lavora insomma, grazie a una tecnologia proprietaria. Il giro è quello: aziende con attività di vendita al pubblico approcciano queste società con una base di dati iniziale, poi lavorata e utilizzata per capire da una parte come agire al proprio interno (e qui Sap la fa da padrona), ma anche per capire come migliorare l’approccio verso i propri clienti o per cercarne di nuovi.
Quanto valgono i nostri dati
Sono gli algoritmi i veri protagonisti della rivoluzione digitale che stiamo attraversando e dei cambiamenti dirompenti del nostro modo di vivere e del modo di operare delle imprese. Ai dati sono interessate le grandi aziende, ma anche le Pmi. Un esempio su tutti: General Electric ha speso circa un miliardo di dollari nel 2016 per raccogliere e analizzare i dati provenienti da sensori posti su turbine a gas, motori a reazione, oleodotti. In tutto questo non c’è però da rimanere delusi nell’apprendere che i nostri dati valgano pochi centesimi di euro. Le regole sono dettate dal mercato. Acquistare online 10mila indirizzi email contenenti cinque parametri personali (gli anni, il sesso, i libri letti, le automobili preferite e gli sport seguiti) costa 164 dollari, e cioè 1,6 centesimi di dollaro per ogni singolo indirizzo mail. Di norma, comunque, i dati di una singola persona sono venduti per un prezzo che sta ben al di sotto di un euro.
No data, no business
Profilazione degli utenti a parte, il tessuto imprenditoriale italiano non può fare a meno dei Big Data. Ne va di mezzo la competitività. Lo sostiene Francesco Medda, founder e ceo di Scloby, startup che si occupa di grandi dati: «L’Italia – dice Medda – ha bisogno di aziende innovative che utilizzino i Big Data che si celano dietro ogni cosa, dall’accensione di una lampadina al traffico sulle strade, all’acquisto fatto in un negozio». Le carenze strutturali e di competenze, però, sono l’altro lato della medaglia. «Le aziende con cui parliamo ogni giorno – racconta Mauro Bennici, co-founder e cto di Yamgu – sono a conoscenza dell’aiuto che i big data possono dare nel migliorare la loro offerta. La mancanza viene dalla comprensione del processo che è necessario adottare per un corretto uso degli stessi».