il Fatto Quotidiano, 23 gennaio 2018
Regeni, la stampa e l’Italia: due anni di teatro della verità
A due anni dall’assassinio di Giulio Regeni la verità pare finalmente vicina. O almeno sappiamo dove cercarla: negli oscuri ambienti accademici dell’università di Cambridge che cinicamente usarono il ricercatore per costruire una cospirazione filo-islamica, forse anti-italiana. Il fatto che Regeni sia stato ucciso al Cairo e non a Cambridge pare avere una qualche rilevanza ma anche su quel fronte, buone notizie: la Procura egiziana, incalzata dal nostro governo, ha mandato importanti carte a Roma, così dimostrando, lo certifica il ministro Minniti, la volontà di al Sisi di collaborare alla scoperta della verità, da cui evidentemente il feldmaresciallo non ha da temere. Questa è grossomodo la sintesi di quanto si è letto e ascoltato in questi giorni, ed è abbastanza per porre con urgenza la domanda che aleggia da due anni sopra questa per nulla oscura vicenda: l’Italia ha ancora un’informazione o ha deciso di farne stoicamente a meno? La seconda, potremmo rispondere ripercorrendo le contorsioni di cui è stato capace il giornalismo italiano in questo tempo.
L’arresto e l’uccisione di Giulio Regeni sono eventi nel complesso lineari, nitidi. Segnalato da un informatore ai servizi segreti egiziani per una vendetta personale o per un malinteso, Regeni fu arrestato nel giorno più temuto dal regime, il 25 gennaio, anniversario della rivoluzione egiziana spenta dal golpe del 2013, e nei paraggi di un luogo altamente simbolico, piazza Tahir, lì dove la sollevazione cominciò. L’apparato che deteneva il ricercatore lo torturò per sette giorni e infine lo soppresse intenzionalmente (con un colpo di karate, accertò l’autopsia), probabilmente per evitare che potesse raccontare quel che aveva subito. È verosimile che l’eliminazione di un occidentale richiedesse l’autorizzazione dello stesso al-Sisi. In ogni caso in seguito il regime è stato tetragono nel rifiutare la colpa di quella morte. Ma dopo tante sguaiate menzogne, quando infine ha deciso di costruire una versione convincente ha finito per scoprirsi. Alla fine di marzo 2016, quasi due mesi dopo la morte di Regeni, la polizia attribuì l’omicidio a 5 egiziani morti in uno strano ‘scontro a fuoco’ con gli agenti.
Quando però l’ambasciata italiana e il legale dei Regeni, la combattiva Alessandra Ballerini, tentarono di vederci chiaro, emerse che i documenti del ricercatore, secondo il regime trovati in casa di uno degli egiziani uccisi e perciò ‘prova’ della loro responsabilità, in realtà erano stati portati lì da un ufficiale della polizia. Un ufficiale di cui, da allora, la Procura di Roma conosce il nome.
Questo clamoroso autogol obbligò l’informazione italiana e i suoi molteplici ispiratori ad abbandonare la tesi propalata fino a quel giorno da grandi giornali e tg: Regeni ucciso da nemici dell’Italia e di al-Sisi per rovinare i proficui rapporti di amicizia intessuti da Roma e dal Cairo. Lo stesso al-Sisi l’aveva fatta propria in una intervista a Repubblica nella quale aveva ricordato tanto i motivi che lo rendevano prezioso all’Italia, dai giacimenti dell’Eni all’influenza egiziana sulla Libia orientale, quanto l’amicizia e la stima, ricambiati, che lo legavano a Renzi. All’epoca quasi tutta l’informazione era renziana, l’Eni rappresenta un grande inserzionista e al-Sisi appare tuttora a molto giornalismo il ‘male minore’, un tiranno ‘filo-occidentale’ che tiene a bada ‘gli islamici’ con inevitabile brutalità. La somma di questi fattori dà come risultato un’informazione altamente omissiva, costruita sul rifiuto di mettere in relazione l’uccisione di Regeni con i metodi di un regime golpista che si è presentato al mondo massacrando 1200 dimostranti e sbranandone centinaia nelle sue sale di tortura.
A noi interessa solo la morte di Giulio Regeni, almeno ufficialmente. Sicché se al-Sisi ci consegnasse tre sgherri qualunque, torneremmo a salutarlo renzianamente, come ‘grande amico’, ‘statista’ e ‘salvezza del Mediterraneo’. Ma poiché neppure questo ripiegamento tattico pare nelle intenzioni del regime, per il governo italiano sta diventando complicato conciliare due obiettivi divergenti, non irritare il Cairo e allo stesso tempo fingere di tener fede a un’indefettibile desiderio di verità.
Ecco allora prendere quota la variante denominata ‘la pista Cambridge’. Avvalorata da Renzi e dal ministro degli Esteri Alfano con dichiarazioni severe, vuole che la tutor di Regeni nasconda il segreto della sua morte, presumibilmente un piano cospirativo finanziato con diecimila sterline. Vi alludono cronache giudiziarie fumose nelle quali ciò che pare certo nel primo capoverso diventa dubbio già nel terzo. Peraltro una conoscenza anche minima dell’Egitto dovrebbe suggerire che l’unico ambiente in cui può davvero maturare una cospirazione contro al Sisi, il vertice militare, non è raggiungibile dagli accademici di Cambridge. Ma fare di Regeni la vittima di un regolamento di conti tra servizi segreti pare ridimensionarne lo scandalo della morte. E spostare l’attenzione sulla ‘pista universitaria’ aiuta a far accettare che al-Sisi torni a essere nostro interlocutore. In dicembre, riferivano i giornali italiani senza tradire perplessità, il dittatore ha espresso al ministro dell’Interno Minniti “la sincera volontà” di ottenere “risultati definitivi” nell’inchiesta. A sua volta Minniti è stato al copione: ha ribadito che l’Italia “pretende la verità” e ha salutato la consegna agli italiani di nuova documentazione come prova di rinnovata collaborazione. In quelle carte c’era poco, ma questo è stato taciuto ai fiduciosi lettori. L’importante è che la commedia vada avanti, dato che nessuno sa come chiuderla. Ma dove l’informazione diventa teatro su commissione, recitazione di testi suggeriti da poderosi committenti, o perlomeno strumento docile del sistema-Paese, cosa resta di una democrazia?