il Giornale, 23 gennaio 2018
Iroso, ironico, incontenibile. Beckett come se fosse al bar
Il più bel saggio su Marcel Proust? Lo ha scritto senz’altro Samuel Beckett (1906-1989), svecchiandolo da una lettura romantica e sdolcinata che continua ancora oggi. Tuttavia qualcuno ha trovato lo studio di Beckett «grigissimo e disgustosamente giovanile», nonché «ruvido come l’ano della Guardia Civica». Chi? Da non crederci, lo stesso Beckett. E mentre ci lavorava si lamentava anche di Proust, ossia «di dover contemplare le sue sedute al cesso per sedici volumi». Anzi, una delle frasi più pesanti dette sulla Recherche l’ha detta lo stesso Beckett, paragonandola al «lacrimoso gloglottio con dentiera di un ventre colloso che evacua».
Insomma, tra le letture più interessanti che si possano fare, ci sono quelle degli epistolari dei grandi scrittori, e tra i grandi scrittori, quel genio Beckett ha un epistolario impressionante, e meno male che diceva «mi è sempre più difficile scrivere, perfino le lettere agli amici»: tra il 1929 e il 1989 ne ha scritte 15mila. Oggi è uscito da Adelphi il primo volume: Lettere 1929-1940 (pagg. 528, euro 50; traduzione di Massimo Bocchiola e Leonardo Marcello Pignataro, ed. italiana a cura di Franca Cavagnoli). Qui è possibile conoscere il genio irlandese come se lo incontrassimo al bar, con molti aspetti inattesi.
Per esempio siamo abituati all’intransigenza di Beckett verso le proprie opere, dove nessuno ha mai toccare una virgola neppure per le rappresentazioni teatrali (si pensi a Aspettando Godot, dove non si può aggiungere neppure un cespuglio alla scarna scenografia di un rachitico albero) ma quando era un esordiente non era così. Nel 1936, dopo aver subito molti rifiuti, è disposto a qualsiasi modifica richiesta pur di far uscire Murphy (poi fu pubblicato nel 1938), perfino cambiargli il titolo. «L’ultima cosa che ricordo è la mia disponibilità a tagliare il libro fino a ridurlo al titolo. Adesso sono pronto a andare oltre, cambiando, se reca offesa, il titolo in Quigley, Trompetenschleim, Eliot, o qualsiasi nomi aggradi agli editori».
Di fronte al numero di tagli imposti, l’obiettivo è arrivare alla pubblicazione, in ogni modo («L’essenziale è far USCIRE il libro»), ma la materia letteraria diventa simile a materia fecale, e Beckett prospetta che il passo successivo saranno «Libri di Beckett Budella», immaginando che «la lunghezza di ciascun capitolo sarà calcolata con cura affinché corrisponda alla libertà di evacuazione media. E per promuovere le vendite, con ogni copia un campione gratuito di lassativo». Da stampare «anche in Braille per pruriti anali».
C’era molta rabbia, in quei primi anni, perché un genio sa di esserlo anche prima che si affermi, e per la pubblicazione del suo libro chiamato «le Ossa», pensando a lettori e critici, spera che uscendo «gli si pianti nell’ano» (le metafore anali e fecali ricorrono nelle missive di Sam). D’altra parte farsi pubblicare poneva l’autore nella posizione di un servilismo inaccettabile, significava «strisciate e leccate di piedi e sollecitazioni», era come «gettare un carico di letame o una tonnellata di mattoni nei cestini dei rifiuti editoriali». E non è che prendesse bene i rifiuti. Al suo agente, George Reavy, il quale gli comunica il rifiuto editoriale di tal Ruper Grayson, risponde senza mezzi termini che «bisogna staccargli le palle a calci».
Nelle critiche Beckett non risparmia nessuno, anche quando sono autori venerati, anche quando li ama e li studia, come si è visto con Marcel Proust, perché un genio tratta chiunque da pari a pari (se lo può permettere). Di Fëdor Dostoevskij adora il movimento narrativo, e afferma che nessuno abbia saputo cogliere come lui l’insensatezza del dialogo, ma allo stesso tempo, leggendo I demoni, osserva quanto sia «molto sciatto, pieno di frasi fatte e giornalese». Legge La cugina Bette di Honoré de Balzac e pensa: «Le cadute di tono nello stile e nel pensiero sono tali che mi domando se scrive sul serio o se sta facendo una parodia». Legge Il fuoco di Gabriele d’Annunzio (in lingua originale, perché Beckett leggeva l’inglese, il francese, l’italiano e perfino lo spagnolo e il messicano), e si indigna per le considerazioni del Vate su due quadri di Giorgione, Il concerto e La tempesta: «D’Annunzio sembra convinto che stiano solo facendo una pausa tra una scopata e l’altra. Orribile. Ha una mente sozza, succosa e sciaguattante come le sue celebri melagrane».
Infine, Samuel Beckett leggeva di tutto, è tra gli autori più eruditi del Novecento, ma – cari insegnanti – non costringete i vostri studenti a leggere per ore, perché Beckett leggeva «una media di un’ora al giorno, in quanto dopo un’ora l’illusione di comprendere finisce», e se leggendo un’ora è diventato Beckett, il resto del tempo lasciate pure giocare i ragazzi con la Playstation.