il Giornale, 23 gennaio 2018
Ma tu ce l’hai lo spid?
Il codice fiscale? Roba del passato. La nuova formula magica in grado di aprire agli italiani tutte le porte della pubblica amministrazione è un’altra: si chiama codice spid e l’ostico termine è un acronimo che sta per «sistema pubblico di identità digitale». L’idea di base è da geniale uovo di Colombo: addio alle complesse procedure di registrazione da ripetere ogni volta che si deve interagire online con uno dei tanti enti pubblici. Quello che serve è, appunto, un’unica identità digitale, attribuita una volta per tutte, e immediatamente riconoscibile sia che si voglia eseguire via Internet una pratica dell’Inps, o che si desideri «parlare» attraverso il web con gli uffici dall’Agenzia dell’entrate o iscrivere i figli a scuola entrando nel sistema del Ministero della pubblica istruzione. Bastano insomma una sola password e un unico nome utente per avere tutti gli uffici pubblici a portata di mouse.
AMBIZIONI E REALTÀ
Il progetto è partito operativamente due anni fa, affidato all’Agenzia per l’Italia digitale, costituita presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Nei 24 mesi trascorsi dall’inizio del 2016 gli italiani che si sono fatti attribuire una identità virtuale sono stati oltre 2,1 milioni e gli enti pubblici raggiungibili via internet grazie a questa sorta di «pin» unico hanno superato quota 3.800. I numeri sono a prima vista notevoli e a contribuire alla diffusione del nuovo codice sono state iniziative come il bonus ai diciottenni e la Carta dei docenti, visto che in entrambi i programmi il presupposto era proprio il possesso di una identità digitale.
Tutto bene, dunque? In realtà, se si guardia alle ambizioni dichiarate via via nel tempo, la digitalizzazione dei rapporti con la pubblica amministrazione sembra avanzare a passo di lumaca. Per la fine del 2017 era per esempio prevista la registrazione di ben 9 milioni di persone, un obiettivo, come visto, rimasto assai lontano dalla realtà.
A rallentare il progetto è certamente il complessivo «stato di salute» digitale degli italiani. Secondo l’Indice Desi per il 2017, elaborato dall’Unione europea (la sigla sta per Digital economy and society index) il nostro Paese è al venticinquesimo posto sui 28 della Ue. Tra i tanti parametri in cui l’Italia è deficitaria c’è quello degli utilizzatori di Internet in rapporto alla popolazione: il 67%. Sembrano tanti ma a livello continentale il dato corrisponde anche in questo caso al gradino numero 25. Ancora più interessanti i dati sull’uso del web: in Italia sembra prevalere un atteggiamento decisamente ludico. Siamo quattordicesimi quando si tratta di scaricare musica, video e giochi (lo fa abitualmente il 79% dei navigatori) ma se si tratta di fare sul serio precipitiamo in classifica. Solo il 42% degli internauti usa i servizi bancari online (gradino numero 23) e appena il 16% degli utenti ha utilizzato i servizi del cosiddetto «governo elettronico» (qui siamo di nuovo venticinquesimi).
L’atteggiamento di alcune amministrazioni pubbliche non aiuta. In questi giorni scatta per gli enti un obbligo stabilito dal Codice dell’amministrazione digitale, l’insieme di norme che regolano la materia: fino ad ora l’accesso via codice spid era un’opportunità che si poteva o no concedere agli utenti di un servizio. Da adesso in poi per il cittadino la possibilità si trasforma in diritto: ognuno di noi potrebbe pretendere di compiere un’operazione online utilizzando la propria identità digitale. L’uso del condizionale resta, però, d’obbligo, perché, molto semplicemente, sono parecchi gli enti a non essere pronti. «Il problema è che non basta scrivere una norma e sperare che tutto vada di conseguenza», spiega Michele Iaselli, docente di Informatica giuridica alla Luiss e all’Università di Cassino. «Il passaggio dall’analogico al digitale è una svolta epocale. Ci vuole un grande sforzo di formazione e divulgazione. Bisogna creare una cultura e una mentalità, sia tra il personale degli enti sia tra i cittadini».
LE REGOLE
L’incrocio tra nuove tecnologie e amministrazione pubblica italiana è particolarmente complicato soprattutto se si guarda al peccato originale di quest’ultima: il fatto che da sempre è concentrata esclusivamente sulla regolarità formale degli atti mentre si disinteressa delle conseguenze pratiche del suo operato. Il risultato sono labirinti kafkiani, come quello raccontato a fianco, in cui il cittadino incolpevole si ritrova suo malgrado.
«Un ulteriore complicazione è che le regole in materia sono un cantiere sempre aperto», aggiunge Iaselli. «Il codice dell’amministrazione digitale è del 2005, poi via via è cambiato fino alla Legge Madia del 2016 e all’ultima riforma che risale appena al dicembre del 2017».
Lo spid si basa su un triplice «muro» di sicurezza informatica. Al primo livello di identità l’accesso ai servizi è consentito con un semplice nome utente e una password; al secondo livello bisogna avere anche un codice temporaneo che viene inviato via sms o con una app mobile; al terzo è necessario anche un dispositivo di accesso come una smart card che, letta dal sistema, fornisce ulteriori dati sull’utilizzatore. Ogni ente pubblico definisce il livello di sicurezza necessario per poter accedere ai propri servizi, ma fino ad ora la scelta di quasi tutti è stata quella di fermarsi al primo livello. In tutti i casi per vedersi assegnato un codice spid bisogna rivolgersi a uno degli otto «gestori di identità digitale» (in inglese identity provider) autorizzati dall’Agenzia digitale italiana. Seguendo le indicazioni di quest’ultima sono loro a verificare i dati del richiedente. Gli otto identity provider hanno procedure diverse tra loro. Il più noto, Poste Italiane, prevede che ci si debba registrare all’indirizzo posteid.poste.it e poi andare in un ufficio postale con un documento per essere identificati. In alternativa (costa 14,50 euro) si può optare per un’identificazione al proprio domicilio e in questo caso è un postino a provvedere, incrociando i dati forniti online con quelli che risultano dal documento di identità personale. Con altri provider si può fare tutto online e l’identificazione avviene via webcam.
L’ITALIA NON BASTA
Password e nome utente (il codice spid) vengono abbinati ai propri dati anagrafici e al codice fiscale, ma anche al numero di telefonino, usato per recapitare l’eventuale codice di verifica. Una volta ottenuti rappresentano una sorta di pin universale ormai accettato da tutti i grandi colossi dell’amministrazione pubblica italiana. L’Agenzia digitale ha già avviato le procedure per garantire l’interoperabilità del sistema italiano con quelli diffusi in altri Stati europei in applicazione di un recente regolamento comunitario conosciuto con la sigla e-IDAS. Il nostro Paese è uno dei primi a muoversi in questa direzione, ma, secondo gli estimatori del codice unico, una svolta ulteriore si avrà quando anche gli operatori privati accetteranno le credenziali sintetizzate nello spid.
Allora, davvero, potremo dimenticarci tutte le altre password di cui ormai è disseminata la nostra vita. E l’identità di ognuno di noi, almeno quella virtuale, sarà contenuta tutta in un unico codice.