Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2018  gennaio 23 Martedì calendario

La procura non crede a Fini. Verso il processo coi Tulliani

Tanto tuonò che piovve. C’è voluto poco più di un anno da quel giorno del dicembre 2016 quando la procura di Roma scoperchiò l’intreccio di rapporti e scambi di denaro tra i Tulliani e il re delle slot Francesco Corallo, con un’inchiesta che ha fatto luce anche sui retroscena della compravendita della casa di Montecarlo, donata ad An da una militante missina che stravedeva per Gianfranco Fini e «svenduta» dal partito proprio al cognato, Giancarlo Tulliani, schermato da società offshore.
Per l’ex presidente della Camera, che aveva sempre giurato la sua innocenza, e che ancora oggi la ribadisce, il 2017 è stato l’annus horribilis che ha visto crollare il castello di panzane costruito, già fragile, all’epoca dell’affaire immobiliare, e che l’ha visto finire insieme ai famigli nel registro degli indagati con l’accusa di riciclaggio. Il 2018, adesso, inizia con l’annunciata richiesta di rinvio a giudizio, per lui e per i suoi familiari. Perché la procura non ha creduto a quanto Fini ha dichiarato nei suoi interrogatori, anche ammettendo di aver mentito, e quantomeno di aver nascosto di aver saputo già anni fa che quella casa era effettivamente del cognato. Con i pm si è giustificato dicendo di non aver parlato, all’epoca, per non doversi dimettere, perché aveva promesso di abbandonare la poltrona da terza carica dello Stato nel caso in cui fosse stato dimostrato che l’appartamento di Montecarlo era di Tulliani, e dunque per non dar seguito all’impegno non gli era rimasto che mentire.
Povero Fini. La procura lo vuole alla sbarra, non è servito nemmeno cambiare strategia nell’ultimo interrogatorio, a novembre, sostenendo di aver saputo «solo recentemente» che nel 2008 la casa di Boulevard Princesse Charlotte era stata comprata sia dal cognato che dalla compagna, Elisabetta, cambiando così quanto dichiarato ad aprile. «Non l’ho riferito, nel primo interrogatorio, per timore delle ripercussioni laceranti che tali affermazioni avrebbero potuto causare nel mio ambito familiare, soprattutto con riferimento alle mie figlie», aveva messo a verbale l’ex delfino di Almirante. Che ieri, raggiunto dalla notizia della richiesta di rinvio a giudizio dei pm romani, ha fatto spallucce: «La richiesta degli inquirenti era prevedibile, ribadisco la mia innocenza e confermo piena fiducia nell’operato della magistratura». Una dichiarazione in fotocopia rispetto a quella del febbraio 2017, quando si ritrovò anche lui indagato e parlò di «atto dovuto», senza farsi mancare il mantra della «piena fiducia nell’operato della magistratura, ieri come oggi». Ieri nel senso del 2010, quando la fiducia diede frutti, perché la procura di Roma diede notizia dell’iscrizione a carico di Fini solo contestualmente all’archiviazione. A questo giro di valzer giudiziario, però, le cose stanno andando diversamente. E per le toghe romane, proprio Fini era il «movente» dietro agli intrecci d’affari tra Corallo, un gigante del gioco d’azzardo e di quello legale, e la famiglia Tulliani, imprenditori di così piccolo cabotaggio che il re delle slot non avrebbe avuto motivo di intrattenere rapporti, e tantomeno di erogare bonifici, finanziando tra l’altro l’acquisto della casa monegasca, pagandone la ristrutturazione e curando pure la struttura societaria offshore che avrebbe dovuto proteggere l’identità del cognato del presidente della Camera. Ora la palla al gip, e il prossimo appuntamento per Fini, compagna, cognato (ancora a Dubai in attesa di estradizione) e suocero sarà in aula per l’udienza preliminare.