il Giornale, 23 gennaio 2018
Vittorio contro Giggino
Pomigliano d’Arco è una città colta. È la città dove ha vissuto lo scrittore italiano più impertinente, più originale, più trasgressivo del secondo Ottocento. E quello che io ho più amato dopo i classici: Vittorio Imbriani. Suo è uno dei libri più scanzonati e spiritosi che io abbia letto: «Dio ne scampi dagli Orsenigo». La sua grammatica è invenzione, la sua sintassi è capriccio e fantasia, i suoi congiuntivi vittoriosi, la sua interpunzione «rap». Nato a Napoli, aveva scelto di vivere a Pomigliano di cui fu cittadino, consigliere, assessore comunale e anche sindaco. Credeva nella fondamentale istruzione elementare e volle un tronco ferroviario per unire Pomigliano a Napoli. Concepì i suoi figli e i suoi capolavori nella avita «casa palazziata» in via della Pigna (oggi a lui intestata). Fantasioso, bizzarro, paradossale, Imbriani ha una scrittura nervosa ed eccitante, le sue parole sorridono, ci chiamano complici. Nella sua pagina anche i vocaboli arcaici o letterari sono rielaborati e rivitalizzati da una scossa elettrica, in un processo di sorprendente «rianimazione». La lettura di Imbriani accresce la vitalità, e sorge dalla voce di un popolo, da tradizioni che non sono ricordo, ma umore, vita. Il destino mi fa ritornare a Pomigliano sulle tracce dell’amato Vittorio, le cui parole sono un monito per me: «Nelle lettere e in politica, personalmente non ho cercato nulla, fuorché la soddisfazione di una attività onesta, disinteressata, utile all’universale». Viva la grammatica.