la Repubblica, 23 gennaio 2018
L’ossessione curda di Erdogan può incendiare il Medio Oriente
ISTANBUL L’ossessione curda di Erdogan.
Con una linea dura – l’opzione militare – senza avere trovato, in tanti anni, una strada per la pace, fallendo ogni negoziato. E ora gli stivali dei soldati turchi oltrepassano la frontiera con la Siria, sfondando il cantone “nemico” di Afrin. Obiettivo: «Fermare i terroristi», ha ordinato nelle ultime ore il presidente turco. Risultato: un’ottantina di morti, più o meno equamente spartiti fra miliziani e combattenti dell’una e dell’altra parte, con almeno 24 civili rimasti vittime, tra cui una donna e due bambini.
Al terzo giorno di teatro, l’operazione militare “Ramoscello d’ulivo” avviata per sottrarre l’enclave al controllo dei curdi siriani, svela tutta l’ipocrisia del nome.
«L’ulivo è per la gente della regione – chiarisce il premier turco Binali Yildirim, fedelissimo del Presidente – mentre il ramo, inteso come bastone, è per i terroristi». E adesso che gli scopi sono dichiarati, gli avversari del leader hanno contorni sempre più netti. Non c’è soltanto l’imam Fethullah Gülen, considerato l’organizzatore del golpe fallito il 15 luglio 2016.
Non c’è l’Europa, che non ammette Ankara entro la cerchia dei suoi valori virtuosi.
Né l’Israele di Benjamin Netanyahu protetta da Donald Trump, con Gerusalemme capitale unica e non condivisa.L’ultima ossessione turca è quella per le enclave curde oltre confine, Afrin l’obiettivo attuale, Manbij il prossimo (liberato dai miliziani dell’Isis proprio per mano dei curdi, sempre nel 2016), ritenute nascondigli per oppositori e nemici.
Ossessioni dure a morire.
Condivise, a dire il vero, persino dall’opposizione repubblicana (ma non da quella minoritaria curda, ovviamente), e capaci comunque di causare odi profondi. Non solo in una Istanbul polarizzata come non mai, dove la gente per strada ha persino paura a parlare e a nominare il nome del presidente, Recep Tayyip Erdogan. Ma in un Medio Oriente sconvolto dall’ennesimo confronto che causa incomprensioni e scontri diplomatici nelle medie e nelle grandi potenze.
Il Capo dello Stato turco appare determinato come sempre. La Turchia non farà “marcia indietro” dopo l’avvio della nuova offensiva. L’enclave di Afrin, nel nord-ovest della Siria, è in mano ai curdi delle milizie delle Ypg (Unità di protezione popolare), sostenute dagli Stati Uniti e considerate “terroriste” da Ankara. Dopo Afrin, ha promesso Erdogan, «sarà la volta di Manbij». Il Sultano si fa forte di un “accordo” con Mosca, dove pochi giorni fa sono volati il comandante delle Forze armate turche e il suo potentissimo capo dell’intelligence, per spiegare le proprie posizioni al presidente Vladimir Putin. «La Turchia non farà un solo passo indietro. La questione di Afrin sarà sistemata. Ne abbiamo parlato con i nostri amici russi, abbiamo un accordo». E il “ramoscello d’ulivo” sorgerà, fa capire Erdogan, ad Afrin come lo fu a Jarablus, ad al-Rai e al-Bab, quando i siriani «potranno tornare nelle proprie case» dopo la fine dell’operazione.
La Russia, invero, dà segnali contrastanti, visto l’invito lanciato ieri «a tutti i principali attori regionali e internazionali», compresi i curdi, nonostante le forti reticenze turche, al Congresso di pace per la Siria previsto il 30 gennaio a Sochi. Una decisione che scontenta Ankara. Ma che non viene colta dai curdi siriani, decisi nel bollare l’evento come “privo di senso” vista la collusione russa con la Turchia nell’attacco appena sferrato.
In Europa a poco valgono gli appelli lanciati dall’Alto rappresentante dell’Unione, Federica Mogherini («sono estremamente preoccupata, parlerò nei prossimi giorni con il ministro turco Celik»), e in Germania dal ministro degli Esteri Sigmar Gabriel. La Turchia fa la voce grossa con gli Usa. «Prima ritirate le armi che avete dato ai curdi e poi ne riparliamo», dice il vice premier Bekir Bozdag. La polemica tra Washington e Ankara sullo status delle milizie curdo siriane Pyd-Ypg va avanti da due anni. I turchi le considerano affiliate al Pkk, l’organizzazione fondata da Abdullah Ocalan con cui combattono una guerra interna nel Sud est dell’Anatolia fin dal 1984.
Washington comunque gela gli ardori turchi. La Casa Bianca chiede ad Ankara di «esercitare moderazione nelle sue azioni militari e nella sua retorica, assicurare che le sue operazioni siano limitate nello scopo e nella durata, e garantire che gli aiuti umanitari continuino evitando vittime civili».
Grande è il caos sotto il cielo del Medio Oriente. Ma chiari sono i nemici e le ossessioni della Turchia.