La Stampa, 23 gennaio 2018
Massimo D’Alema. Il serial killer della politica tra epurazioni e tradimenti
La prima volta che incontrai Massimo D’Alema fu negli Anni Ottanta quando lui, figlio di un parlamentare del Pci ed ex-presidente della Fgci, era un giovane apparatchik di via delle Botteghe Oscure.
Quando lo conobbi era già immerso negli intrighi del partito e aveva appena stipulato con Achille Occhetto il famigerato «patto del garage». L’accordo, stretto il giorno stesso dei funerali di Enrico Berlinguer, nel 1984, mirava alla caduta di Alessandro Natta, divenuto segretario a seguito della morte del grande leader sardo. L’occasione arrivò quattro anni dopo, mentre il povero Natta era ancora debole per un infarto.
Massimo D’Alema non è un uomo che si fa tanti scrupoli.
L’ho visto l’ultima volta qualche estate fa, nel suo casale in Umbria. Ero andato a trovarlo ad Otricoli, dove produce spumante e altri vini. Di quel pomeriggio di fine agosto ricordo alcune immagini, frammenti di un carattere molto particolare, di un uomo che appare compulsivamente spinto a mostrare i denti, ad affermarsi come maschio alfa, dominante: il capo che comanda. Ad aspettarmi, al mio arrivo al suo podere, c’era un branco di cani corsi che mi abbaiava contro. Con un sorriso quasi maligno, D’Alema mi ha spiegato che si trattava di cani «molto cattivi». «Guardi questi denti!», mi ha messo in guardia cercando di aprire la bocca di uno dei cani, «Una dentatura da squalo! Sbagli una mossa e ti uccide».
L’ultimo incontro
In quella circostanza, credo di aver visto il vero D’Alema. Mi ha parlato con malcelato orgoglio dell’importanza dei suoi impegni all’estero, mi ha fatto ammirare i suoi filari di cabernet franc e pinot nero. E per ogni cosa che mi mostrava, non dimenticava mai di sottolinearne il prezzo. I cuccioli dei suoi cani, mi ha spiegato, «valgono molto». E poi: «Quella villa lì sul colle», ha detto gesticolando all’orizzonte, «era un monastero. Costa milioni di euro». Milioni. Prima di raggiungere il casale per l’intervista, ci siamo fermati davanti a un albero: «Questo è un giuggiolo, molto raro, e costa 15 mila euro». E a due metri di distanza: «Quest’altro invece è un ulivo secolare, e vale 1500 euro».
In cucina mi ha mostrato una Berkel degli Anni Trenta, «perfettamente funzionante». Ho colto l’opportunità per chiedergli se affettasse anche la mortadella. Ma D’Alema ha fatto finta di non aver sentito la battuta.
Massimo D’Alema. Un tipo molto particolare, non piace a tutti.
Le lotte intestine
Achille Occhetto lo ha definito un serial killer della politica. Un uomo che concepisce la cosa pubblica come una lotta per il potere, e gli avversari come nemici da annientare.
E in effetti, passando in rassegna la carriera di D’Alema, la prima cosa che salta agli occhi è il carattere negativo della maggior parte dei suoi trionfi, tra i quali figurano sconfitte e defenestrazioni di compagni di schieramento. Massimo D’Alema è sempre stato molto bravo a remare contro, all’interno del suo stesso partito.
Dopo essersi sbarazzato di Occhetto e Veltroni, ha deciso di occuparsi di Romano Prodi. D’Alema ha sempre negato qualsiasi coinvolgimento nella caduta del governo Prodi nel 1998, ma la maggior parte degli italiani la pensa diversamente. Prodi è stato vittima di D’Alema una seconda volta, nell’aprile del 2013, durante la tormentata votazione al quarto scrutinio per il Quirinale, quando i famosi 101 franchi tiratori hanno pugnalato il Professore nel segreto dell’urna. Prodi mi ha rivelato successivamente che da una conversazione telefonica con D’Alema, avvenuta quello stesso giorno a poche ore dal voto, aveva capito che non sarebbe mai salito al Colle. D’Alema ha negato tutto, come fa di solito.
La rottura con Renzi
Dal 2010, l’anno in cui Matteo Renzi ha pronunciato per la prima volta la parola «rottamazione», riferendosi esplicitamente a D’Alema, tra i due è guerra aperta. Dopo il referendum del 4 dicembre, D’Alema è riuscito a infliggere duri colpi a Renzi, facendo del male al segretario e al partito. Più recentemente si è scontrato con Giuliano Pisapia. L’ex sindaco di Milano, probabilmente, aveva capito fin dall’inizio il pericolo che proveniva dalla mano tesa di D’Alema. Oggi è considerato il deus ex machina di Liberi e Uguali, un partito che assomiglia a una limousine politica fatta apposta per il Lider Maximo. E non importa se il capo ufficiale di LeU si chiami Pietro Grasso. Baffino rules!
Felice della candidatura nella sua amata Puglia, D’Alema spera di tornare al centro delle macchinazioni e degli intrighi, come ai vecchi tempi. Se non ci sono i numeri per formare un esecutivo, ha affermato in una recente intervista, perché non fare allora un bel governo del presidente? A D’Alema, evidentemente, l’idea non dispiacerebbe. E chissà che non ci scappi un ruolo anche per lui. E se Grasso o Laura Boldrini vengono colti di sorpresa dalle sue dichiarazioni, pazienza! D’Alema non guarda in faccia a nessuno.
Uomo della Prima Repubblica, specializzato in trame e complotti, sogna invano di passare alla storia come un grande statista.
Non importa con quanto impegno ci provi: Massimo D’Alema non sarà ricordato nel modo in cui vorrebbe. Non può farci nulla. E se ad Hollywood qualcuno dovesse un giorno scritturarlo per un film western, non c’è dubbio che gli assegnerebbe il ruolo del Bad Guy.