Il Sole 24 Ore, 23 gennaio 2018
Scoop e hi-tech, così è rinato il Post
È un giornale storico e che la storia l’ha fatta. Ma nel 2013 il Washington Post era solo l’ombra di se stesso. Premi Pulitzer per lo scandalo Watergate ormai archiviati, la famiglia Graham, che da tempo immemore lo controllava, sull’orlo del collasso. Finché a farsi editore non arrivò Jeff Bezos: reduce dal successo nell’economia digitale con Amazon, versò 250 milioni di dollari della sua fortuna personale per un business che soffriva proprio a causa della digital revolution. Quattro anni dopo quella che era parsa un’avventura vanagloriosa, il Post è tornato a essere meta obbligata nei media. Fucina di innovazione e contenuto. Bezos non è il primo imprenditore Internet a compiere una scommessa sul riscatto di una testata di prestigio. È il primo ad averla finora vinta.
Ampie risorse e fiuto per il web hanno dato gambe al “miracolo”. Questo però da solo non basta, come ha dimostrato il fallimento eccellente di un editore neofita, l’ex Facebook Chris Hughes, prestato da Internet alla rivista New Republic. Il Post di Bezos è riuscito a dimostrare come pochi altri la rilevanza dei contenuti nell’era dei social network e la possibilità di sposarlo e sostenerlo con la tecnologia, cambiando progetto grafico, occupando con determinazione spazi digitali, sviluppando crescenti opzioni interattive, modernizzando l’uso di titoli e fotografie. Di più: ha attaccato con aggressività lo stesso modello di “monetizzazione”. Abbandonando fiducia cieca nella raccolta pubblicitaria – crollata sulla carta e dominata nel digitale da Facebook e Google – ha puntato su servizi premium, su articolati paywall che gli abbonati si sono mostrati interessati e disposti a valicare. Il risultato: una fonte stabile di entrate digitali con un giro d’affari proiettato oltre i cento milioni l’anno. Questo mentre, dal record di 49 miliardi in inserzioni nazionali sui giornali nel 2006, il settore è ora sceso a 18 tagliando ventimila posti di lavoro, oltre un terzo, in vent’anni.
Altri parametri sono rivelatori per il Post. Il traffico Web è raddoppiato dal 2013. In due anni l’incremento degli utenti è stato del 57% a 75 milioni stando a ComScore. E con i millennials che rappresentano un terzo del totale. In costante crescita anche il numero di page view mensili (985 milioni) e i minuti medi trascorsi nella lettura. Gli utenti “mobili” sono balzati del 35% in un anno – oltre 60 milioni. Tanto che il sistema di gestione del contenuto digitale ha fatto scuola, oggi offerto in licenza a terzi dando vita a una divisione di business che ambisce a generare a sua volta cento milioni di entrate. La piattaforma editoriale Arc ha conquistato 22 gruppi e testate dal Los Angeles Times al Chicago Tribune e al Globe and Mail. Prova visibile che il Post è entrato di diritto nel triumvirato di marchi in grado di trasformarsi con le strategie digitali. Gli altri due sono il New York Times, che da gennaio ha promosso publisher il 37enne AG Sulzberger, ultimo erede della famiglia di editori e soprattutto tra gli autori del piano di innovazione del gruppo. E il Wall Street Journal, che ha in atto in questi mesi una nuova riorganizzazione nei ranghi senior incentrata sul digitale.
Bezos è riuscito nell’impresa traducendo la strategia consumer-centric di Amazon in un nuovo approccio reader-centric, incentrato sul lettore, per il quotidiano. È il contenuto la vera “killer app” del nuovo Post sui cui si reggono tutte le altre. Un contenuto celebrato fin sotto la testata, in risposta alle campagne del Presidente Donald Trump contro il giornale e contro Bezos, con un nuovo motto: «La democrazia muore nell’oscurità».
Quella del fondatore di Amazon appare tuttavia sempre più non come filantropia ma accorta scommessa industriale. Il bilancio del Post è lontano da occhi indiscreti, non essendo più una società quotata. C’è però da credere quando indica d’aver concluso in attivo il 2016 e d’essere avviato a un altro profitto e un’altra marcia in doppia cifra delle revenue digitali.
La formula che ha dato simili risultati ha visto l’assunzione di decine di nuovi giornalisti – oltre un centinaio per superare i 700 – che hanno rafforzato reporting e analisi. E uno staff tecnico più che raddoppiato che ha saputo distribuirli e monitorarli su molteplici piattaforme. «Non possiamo continuare a rimpicciolirci per diventare più rilevanti», è una delle affermazioni di Bezos più citate. Ancora: «Siamo cresciuti per diventare redditizi». Sotto la direzione di Marty Baron, lasciato al suo posto, il giornale ha sfruttato la leadership di un veterano del settore immortalato dal film Spotlight, che lo ritrae responsabile della squadra investigativa del Boston Globe. Tra le storie-shock del Post nella nuova era: inchieste sui programmi di spionaggio di massa basate sulle informazioni fornite dalla talpa dei servizi segreti Edward Snowden; rivelazioni sulle men che caritatevoli donazioni di Trump e sui suoi vanti di molestie sessuali (degne del Pulitzer); la denuncia di contatti pericolosi con la Russia dell’ex Consigliere di sicurezza nazionale Michael Flynn; e lo scandalo di pedofilia costato l’elezione al Senato del repubblicano oltranzista Roy Moore.
La tecnologia svolge però adesso un ruolo chiave a fianco del contenuto. Baron, quando parla di quel che è cambiato al Post, dice «l’intera strategia». Per “sbloccare” i vantaggi di Internet e diventare organo d’informazione su scala nazionale e internazionale. Dicendola ancora con Bezos: «Storicamente abbiamo guadagnato relativamente tanto per lettore su una base di utenti piuttosto bassa. Dobbiamo realizzare piccoli guadagni per lettore su una base molto più ampia». Raggiungere cioè schiere di utenti con campioni di prodotto, poi a scalare in proporzione alla spesa richiesta. E con armi hi-tech messe al servizio del contenuto, rafforzando poi costantemente questa piramide.
Il Post ha sviluppato propri software con un esercito di 250 programmatori e esperti di tecnologia sotto la guida di una coppia forse non casualmente di estrazione informatico-giornalistica: il chief information officer Shailesh Prakash, ex Microsoft e Netscape, e il direttore di prodotto Joey Marburger, ex newspaperman. Tra gli esempi di questo nuovo arsenale: il tool Bandito ha consentito di pubblicare articoli con molteplici titoli, foto e altri elementi di presentazione con un algoritmo che sceglie la versione più letta. Loxodo ha misurato dati alla mano la percezione di qualità e velocità paragonata a rivali. Rapidità e perfezione del caricamento dei contenuti in frazioni di secondo – soprattutto sul mobile che rappresenta il 70% del traffico online del Post – è stata tra le primissime crociate di Bezos. BreakFast è dedito all’efficacia di alert e breaking news. Il quotidiano, inoltre, se pubblica su piattaforme digitali esterne quali Facebook e Google invia subito ai lettori offerte di abbonamento a newsletter mirate – almeno 60 su una platform battezzata Paloma – e che ospitano pubblicità. Ancora: Heliograf è intelligenza artificiale che ha consentito di coprire simultaneamente l’esito di centinaia di elezioni locali. ModBot gestisce un milione di commenti di lettori al mese.
La strada – per il Post di Bezos – rimane accidentata e forse lunga. Le entrate non sono tornate ai livelli del 2012, ultimo anno di bilanci resi noti, di 580 milioni; secondo alcune stime potrebbero sfiorare i 400. Né la società ha evitato austerity, quali tagli alle pensioni. E, in un commento comparso sulla stessa sezione Metro del giornale, Bezos è stato criticato per il trattamento dei dipendenti. Cavaliere bianco del giornalismo oppure nuovo magnate dei media. Forse, come in ogni storia complessa, entrambi.