La Stampa, 21 gennaio 2018
Usa alla guerra del petrolio. A rischio l’equilibrio Opec
Non solo gli Stati Uniti quest’anno scavalcheranno l’Arabia Saudita diventando il secondo più importante produttore di petrolio alle spalle della Russia, ma continuando a pompare greggio – avverte l’Agenzia internazionale dell’energia – potrebbero anche arrivare a compromettere l’equilibrio del mercato. Un equilibrio raggiunto a fatica nel corso del 2017 grazie al taglio della produzione concordato tra la stessa Russia, l’Arabia Saudita e gli altri Paesi aderenti all’Opec, più una decina di altri Paesi produttori fuori dal cartello, e confermato di recente per tutto il 2018.
Si tratta di circa 1,8 milioni di barili estratti in meno ogni giorno, che sommati alla ripresa della domanda mondiale ed al calo della produzione venezuelana (ai minimi degli ultimi 30 anni), ha assottigliato le scorte mondiali di petrolio ed innescato un significativo aumento di prezzi. Solo negli Usa, nella seconda settimana di gennaio, per effetto del cattivo tempo le riserve sono scese di 6,9 milioni di barili a 412,65 milioni, ovvero il livello stagionale più basso degli ultimi tre anni e ben sotto alla media quinquennale che si attesta a quota 420 milioni. Il risultato finale è stato un significativo aumento dei prezzi che alla fine ha fatto tornare di nuovo redditizia la produzione di shale oil da parte degli Usa che anni di basse quotazioni in passato avevano invece buttato fuori mercato. Secondo l’Aie, che parla di «crescita esplosiva», gli Stati Uniti quest’anno dovrebbero superare la soglia dei 10 milioni di barili al giorno, un massimo storico mai visto dal 1970, sorpassando così l’Arabia Saudita ed avvicinandosi notevolmente alla Russia, primo produttore mondiale di greggio con 10,9 milioni di barili al giorno. L’Agenzia internazionale dell’energia, nel suo ultimo rapporto mensile, ha infatti rivisto all’insù le stime relative all’aumento della produzione americana che quest’anno dovrebbe aumentare di circa 1,35 milioni di barili (contro una previsione precedente di circa un milione) sino a raggiungere il record di 10,4 milioni/giorno.
Già l’anno passato mentre i 14 Paesi dell’Opec scendevano da 39,6 milioni di barili a 39,2 gli Usa hanno approfittato della situazione salendo di 600 mila al giorno e compensando così una buona parte del taglio attuato dal cartello. L’industria statunitense dello shale oil, rileva l’Aie, ha infatti battuto tutte le aspettative, beneficiando non solo dell’aumento dei prezzi e del taglio dei costi ma anche dell’intensificazione delle attività di perforazione e di tutte le altre misure di efficientamento approvate durante gli anni di crisi. «Ha dimostrato in questi anni un notevole grado di resilienza», ha rilevato martedì scorso di fronte alla Commissione energia del Senato americano il direttore esecutivo dell’Aie Fatih Birol.
Complice anche le nuove tensioni geopolitiche il prezzo del Brent lunedì scorso ha chiuso per la prima volta sopra quota 70 euro, ai massimi dal dicembre 2014. E visto che l’Agenzia mantiene invariate le previsioni di crescita della domanda mondiale di greggio (con un incremento dei consumi di 1,3 milioni barili al giorno, contro il +1,6 dall’anno passato) tutto fa presumere che fra i grandi produttori la tensione di qui ai prossimi mesi sia destinata a salire. Con gli Usa ovviamente sempre a fare la voce grossa. Secondo Birol, infatti, la produzione combinata di petrolio e gas degli Stati Uniti di qui al 2040 segnerà un incremento del 50% superiore a quello di qualsiasi altro paese. «Questa è un’impresa impressionante – ha sancito il direttore dell’Aie -. Gli Usa sono pronti a diventare l’indiscusso produttore di petrolio e gas nel mondo nei prossimi decenni».