La Stampa, 21 gennaio 2018
Raid aerei e artiglieria contro i curdi. Erdogan sfida gli americani in Siria
Il nome non è dei più felici, «Ramo d’olivo», ma forse riassume le contraddizioni dell’operazione lanciata ieri dalla Turchia contro i guerriglieri curdi dello Ypg in Siria. Un’offensiva annunciata da settimane dal presidente Recep Tayyip Erdogan, con toni sempre più duri e obiettivi sempre più vasti, ma che si scontra con una realtà intricata persino per gli standard mediorientali. I curdi sono i migliori alleati degli americani. Dopo la sconfitta dell’Isis a Raqqa, Washington vuole usarli per contenere l’influenza iraniana e Bashar al-Assad. Ma i curdi hanno anche buoni rapporti con i russi, e persino con Damasco in alcune zone, per esempio ad Aleppo. Per i turchi invece lo Ypg rappresenta «l’ala siriana» del Pkk, quindi un’organizzazione terroristica da «distruggere», a costo di mettersi contro le maggiori potenze.
Ieri, dopo i bombardamenti con l’artiglieria, sono entrati in azione i cacciabombardieri F-16 che hanno colpito «un centinaio di obiettivi dello Ypg» ad Afrin. È questo il punto debole dello schieramento curdo. Afrin è separato dagli altri due cantoni che formano il Kurdistan siriano, Kobane e Jazeera. Con una superficie di 1800 kmq e 180 mila abitanti, è circondato da due lati dalla frontiera turca e dagli altri due da territori controllati dai ribelli arabi alleati di Ankara. E ieri sono state le formazioni arabe a muoversi a terra verso Afrin dalla città di Azaz, dove venerdì sera avevano sfilato 4 mila miliziani.
Sempre venerdì il capo di stato maggiore turco, generale Hulusi Akar, era volato a Mosca per un vertice con il collega russo Valery Gerasimov. I russi sono presenti ad Afrin con un contingente di un centinaio di uomini, spostati lì a garanzia dei curdi. Non solo. I sistemi anti-aerei S300 e S400 piazzati a Tartus e Lattakia coprono tutto lo spazio aereo siriano e «ingaggiano» in automatico gli aerei della Nato. Ankara aveva bisogno del via libero russo e lo ha avuto. Ieri sera Mosca ha annunciato di aver ritirato «le truppe dispiegate nella zona di Afrin». La copertura russa non c’è più, nonostante le proteste di Damasco che giovedì aveva minacciato di «abbattere» i jet turchi in caso di «violazioni» e ieri ha negato di essere stata «informata» da Ankara sull’operazione.
I raid sono stati confermati da un portavoce dello Ypg, Rojghat Roj, che ha denunciato anche le prime «vittime civili», per ora soltanto feriti, e minimizzato l’azione di terra, «schermaglie». Altre fonti curde dicono che «quattro soldati turchi» sono stati uccisi al confine. Migliaia di uomini delle forze armate di Ankara, con centinaia di mezzi corazzati, compresi carri M60 e Leopard, attendono l’ordine d’attacco. Ieri Erdogan ha detto che l’obiettivo è sconfiggere i «terroristi ad Afrin, Manbij, fino al confine iracheno», cioè spazzare via lo Ypg da tutto il Kurdistan siriano.
Anche Mosca ha bisogno di Ankara per arrivare alla fine della guerra in Siria. Però ha dato il via libera soltanto nel cantone di Afrin. L’altro alleato, l’Iran, ha parlato invece di «conseguenze negative» con il viceministro degli Esteri Hossein Jaberi Ansari. A Sochi, il 30 gennaio, i tre si preparano ad annunciare la loro «soluzione politica», subito dopo la nuova tornata dei colloqui di pace a Vienna fra il 26 e il 28. Mosca deve far quadrare ora un cerchio incandescente. Gli americani stanno a guardare: hanno tracciato la loro linea rossa lungo l’Eufrate, né russi né turchi possono operare a Est del fiume, dove ci sono anche 2 mila militari Usa. Ma a questo punto neanche i curdi di Kobane sono più molto tranquilli.