La Stampa, 21 gennaio 2018
Kuwait. Filippini ridotti in schiavitù. Troppi maltrattamenti. In pochi giorni morte quattro domestiche
L’ultimo caso, una domestica che si è buttata giù dal terrazzo della casa dove lavorava a Kuwait City, ha spazzato via quel poco di diplomazia che caratterizza il presidente filippino Rodrigo Duterte. «Abbiamo perso quattro donne in pochi giorni, adesso basta, chiamateli e ditegli che non è più accettabile». Non era una decisione facile, perché i lavoratori all’estero rappresentano per le Filippine una delle maggiori risorse, e fonti di valuta pregiata, ma il ministro del Lavoro Silvestre Belo ha avvertito il governo del Kuwait e bloccato gli espatri, finché non saranno risolti «i casi che riguardano la morte delle nostre lavoratrici».
I filippini in Kuwait sono 250 mila, su una popolazione di 4,2 milioni. Sono soprattutto domestici, donne. I suicidi nelle ultime settimane hanno portato alla luce una condizione durissima, al limite della schiavitù. Le domestiche sono ingaggiate, in Kuwait come in gran parte dei Paesi arabi, con il sistema della «kafala». Il datore di lavoro paga una cauzione, che può arrivare a quattromila dollari, come garanzia in caso di rimpatrio forzato. In cambio ottiene un potere quasi assoluto: sequestra il passaporto e impone ritmi massacranti, «fino a 20 ore al giorno», hanno documentato ong indipendenti come Kafa.
Nelle situazioni peggiori si arriva alle violenze, anche sessuali. E le donne più fragili, umiliate, di fatto prigioniere in un Paese straniero, arrivano a suicidarsi. Nel marzo scorso aveva fatto scandalo un filmato postato su Facebook dalla padrona di casa: mostrava la sua cameriera etiope, aggrappata alla ringhiera del balcone dopo aver tentato di buttarsi giù. Nel video si sente la padrona che le grida «pazza, che hai fatto» mentre continua a filmare senza soccorrerla, finché la donna perde la presa e cade dal settimo piano. Incredibilmente, si è salvata. Il video ha aperto un dibattito in tutto il mondo arabo, c’è stato un processo, ma nella sostanza nulla è cambiato.
Anzi, le condizioni continuano a peggiorare perché a causa della crisi economica indotta dal calo del prezzo del petrolio, decine di migliaia di domestiche sono state licenziate. Il viceministro degli Esteri kuwaitiano Khaled al-Jarallah si è mostrato «sorpreso e dispiaciuto» per le parole del presidente filippino e ha promesso che ci sarà un’ «inchiesta giudiziaria». Ma il clima è sempre più ostile. Due deputati, Khalil Abdullah e Abdullah Al-Tamimi, hanno presentato un progetto di legge per «ridurre la popolazione degli espatriati di 1,4 milioni» entro il 2020. Il fatto che oggi gli stranieri rappresentino oltre i due terzi della popolazione «è pericoloso per la sicurezza dello Stato», hanno spiegato.
Il rapporto anomalo fra stranieri e cittadini locali spiega la durezza delle politiche sull’immigrazione nel Golfo. La percentuale di stranieri oscilla fra il 32% in Arabia Saudita all’89 negli Emirati. Gli immigrati non hanno nessuna chance di ottenere la cittadinanza. Sono tutti «temporanei», con diritti minimi. Di integrazione non se ne parla neanche. In un altro Paese arabo con forte presenza di immigrati, il Libano, non soltanto non è immaginabile lo Ius soli, ma persino lo Ius sanguinis subisce limitazioni: i figli di una donna libanese e di un uomo straniero non ottengono automaticamente la cittadinanza.
Nel Golfo la chiusura si spiega con un’esplosione demografica che non ha eguali al mondo. Gli Emirati, in un secolo, sono passati da 90 mila abitanti a 9,6 milioni. I locali sono meno di un milione, mentre gli immigrati filippini sono arrivati a 680 mila, per poi calare dopo una serie di campagne contro l’immigrazione irregolare. Fra il 2007 e il 2008 trecentomila lavoratori asiatici, compresi ventimila filippini, sono stati costretti a lasciare il Paese per le nuove regole sui visti, e oltre mille sono finiti alla deriva nel Golfo, spiaggiati sull’isola iraniana di Kish e in quella omanita di Al-Buraimi.
Gli «infiltrati» rischiavano fino a dieci anni di galera, ma la maggior parte non aveva i soldi per pagarsi il viaggio di ritorno. Norme simili sono state approvate anche in Oman, Bahrein, Arabia Saudita e Qatar, accanto a piccole aperture. In Qatar, nel 2008 l’ex emiro Hamad bin Khalifa al-Thani, ha permesso l’apertura di chiese, una con un sacerdote filippino. Aperture simili sono state promesse dal principe ereditario saudita Mohammed bin Salman. Ma sono gocce nel mare. Sulle spalle dei 10,8 milioni di migranti filippini nel mondo c’è gran parte della sopravvivenza delle loro famiglie e della madrepatria, che non possono fare a meno dei 5 miliardi di dollari di rimesse all’anno.