la Repubblica, 22 gennaio 2018
Daniel Day-Lewis, il rimpianto dell’uomo
Alma e Reynolds si sfidano in silenzio, con gli sguardi. Tra loro un fumante piatto di funghi, cucinati da lei per lui: però col burro, che lui detesta e lei lo sa. Il punto è: sono velenosi o no? La prima volta lo erano, e adesso? Chi prevarrà su chi? Il nuovo film dell’americano Paul Thomas Anderson, che i cinefili rimasti definiscono di culto, ha parecchie motivazioni (pure quelle di culto) per far soggezione ed essere eletto a capolavoro, oppure boh! Nella folla di personaggi inquietanti che piacciono ad Anderson (il pornodrogato, il capo di una setta, il tenebroso magnate del petrolio, il predicatore svitato) il più eccentrico è proprio il protagonista di questo Filo nascosto: un sarto per famiglie regnanti che impera nella Londra primi anni 50, tempo di ricostruzione, disordine e ancora tesseramento non solo alimentare. Pare che gli piacciano le donne, se non altro per dominarle e schiavizzarle, usarle e poi cacciarle, e infatti se le sceglie non tra le sue opulente e imperiose clienti ma tra le ragazze qualsiasi, che una alla volta devono avere la triplice funzione di modella, musa, e si presume, amante, anche se Anderson, creatore di inquietudini, ce li mostra sempre in camere separate e divisi da quell’ostilità sorridente che può creare, ma non sempre, grandi passioni.
Bisogna però avvertire immediatamente che il sarto, il couturier (lo stilista non era ancora immaginabile) è Daniel Day-Lewis e quindi non va detto altro: già definito da Time il più grande attore al mondo, 3 Oscar e un magazzino di premi, basta vederlo un attimo per innamorarsene per sempre.
Adesso ha quei 60 anni mistici che fanno di lui il modello perfetto dell’uomo che guai a non averlo, piuttosto un piatto di funghi. Se al naturale oggi è serenamente spelacchiato, nel cappotto grigio del sarto Reynolds, con una corona di capelli grigi ondulati, e sguardo ironico e rughe paradisiache e un’aria da lupo dall’azzannata gradita, è l’immagine di una maschilità d’epoca, forse anche allora solo immaginaria, oggi dispersa se non in gesti e situazioni di potere perduto. E vedendo il film, anche un pochino rimpianta.
Alma (Vicky Krieps) è la cameriera di un ristorante sulla costa, lineamenti qualsiasi, carina perché giovane e sorridente: lui ha appena liquidato l’ultima musa venuta a noia. Ecco adesso Alma, la perfetta musa sostituta: pecorella ingenua o furbacchiona furbissima?
La trappola di Anderson è che non lo dice mai, come non dice mai tante altre cose, ed è chi guarda che deve ingegnarsi da solo nel labirinto dei personaggi, arrivando alla fine ancora tentennante e confuso.
Ma intanto sfilate con le modelle che tengono in mano il loro numero, e maree di lavoranti che cuciono tutte insieme le decine di metri dell’orlo di un abito da sposa, e il sarto artista che dal suo appartamento scende in laboratorio (tutto bianco) e indossa la giacca da lavoro di tela bianca ed è come se attorno a lui si formasse un’aura di venerazione e intoccabilità, perché alla fine con tutte quelle mani femminili al lavoro, sono le sue quelle che contano, quando in segreto infila in una cucitura il filo nascosto, cioè un lembo di stoffa con una frase che renderà quel modello unico.
Certo erano anni, a Parigi, a Roma, a Londra, a New York, in cui la moda era una cosa solo per ricchi veri, non soltanto per la preziosità dei tessuti e le ore di lavoro necessarie, ma anche perché del tutto inutile, nella sua necessità di trasformare le donne in noiose bamboline invitate in qualche antica dimora nobiliare.
E giustamente quando gli spiegano che stanno perdendo le clienti che preferiscono lo chic, Reynolds si infuria ritenendo quella parola contraria a ogni eleganza.
Ovvio che anche Alma, diventerà sgradita al suo padrone: quando il suo servire il tè avrà il rumore di un torrente, lo spalmare burro sul toast il fragore di una sega elettrica. Ma Alma ha mille risorse e cercherà di servirsene.
Alcune storiche della moda si chiedono chi mai potrebbe essere quel sarto di massimo narcisismo ed esagerato potere che regna nel film. Certo se l’è inventato Anderson, essendo suoi soggetto e sceneggiatura: ma forse c’è un po’ di Norman Hartnell, il sarto dell’abito da sposa di Elisabetta nel 1951 e di quello della sua incoronazione nel 1953, un po’ di Charles James, che lavorava tra Londra e New York, in società con una sorella, e, lo dice lo stesso regista, molto Balenciaga, soprattutto per la sua severa supponenza e genialità irraggiungibile. Alla fine Il filo nascosto riesce a turbare i turbabili per due possibili ragioni.
Primo: Day-Lewis ha annunciato che questo è il suo ultimo film, il che è inaccettabile, intervengano i governi. Secondo: perché dopo tanti mesi di eroismi femminili contro i molestatori ridotti in macerie umane e finanziarie, questo Reynolds virilista, profittatore, sfruttatore, sprezzante, di pessimo carattere, egoista e dominatore è proprio quello che piace, che fa innamorare; anche perché è da secoli che si è imparato a manovrarlo, ad asservirlo, come forse tenterà di fare Alma, con inestinguibile amore-odio.