la Repubblica, 21 gennaio 2018
«Fotografo le note nel cervello del pianista». Lo studio di Roberta Bianco
ROMA L’ammirazione per il prof di scienze, le lezioni di flauto.
L’amore per Bach: «Le sue melodie come un mondo perfetto d’incastri e variazioni». Roberta Bianco, 31 anni, ha risolto così: diploma al conservatorio, master in neurobiologia a Pavia e dottorato in neuroscienze cognitive al Max Planck Institute di Lipsia, in Germania.
Ora, dopo un anno in Canada, si è trasferita all’University College di Londra. Qui sta studiando la maniera in cui il cervello riconosce determinati schemi sonori.
«Suonare è un piacere immenso, mi appassiona e gratifica la sfida. Ma non faceva per me, la persona meno musicale che conosco. Sono pure stonata». Ha preferito la ricerca. Senza dimenticarsi delle note. Così da più di cinque anni entra nella testa dei pianisti «con l’obiettivo di capire quali sono i processi cerebrali che guidano chi si mette alla tastiera, come una mano invisibile». Cosa c’è dietro quegli accordi che ci emozionano. «La musica è l’esempio di ciò che la mente umana è in grado di fare nella sua massima espressione» spiega la studiosa. Il cervello dei musicisti «è una scatola nera su cui fare luce». Scoprirne i segreti, il meccanismo.
Da qui un’analisi condotta con i colleghi dell’istituto tedesco che sarà pubblicata nell’edizione di Aprile di NeuroImage, rivista dedicata ai progressi nel mondo delle neuroscienze.
Un esperimento che ha coinvolto trenta pianisti, con almeno dieci anni di esperienza: metà specializzati in musica jazz, l’altra metà in quella classica. «Prima hanno indossato una cuffia per l’elettroencefalogramma che misura l’attività elettrica del cervello», racconta Bianco.
«Dopo hanno imitato le foto proiettate su uno schermo in cui una mano eseguiva degli accordi. Il tutto senza ascoltare il suono che producevano, in modo da isolare i processi cognitivi e motori coinvolti nella programmazione delle azioni musicali».
Nelle immagini, però, un trucco: c’erano degli errori sia di armonia che riguardanti il posizionamento delle dita sulla tastiera. Il risultato ha sorpreso.
«Le reazioni dei due gruppi sono state diverse – spiega la ricercatrice -. Analizzando le onde cerebrali durante le performance, ci siamo accorti che i pianisti jazz hanno elaborato più facilmente armonie inaspettate. Infatti, quando si sono trovati a suonarle hanno avuto tempi di risposta più celeri, con una riduzione delle onde cerebrali di tipo beta: segnale neurale che di solito si registra nel momento in cui il cervello riconosce degli sbagli nelle azioni».
Viceversa, i pianisti classici hanno “accolto” meglio errori di tecnica, facendo meno strafalcioni nell’utilizzare posizioni delle dita inusuali. Un esito che, secondo gli scienziati, affonda i tasti in due processi cognitivi diversi. Il «cosa suonare», su cui si concentrano i jazzisti sempre pronti a improvvisare, ad adattare i componimenti al loro stile, a sperimentare. «Quando non sai cos’è, allora è jazz» sintetizza una battuta del film La leggenda del pianista sull’oceano. E poi c’è il «come suonare», a cui danno invece priorità Chopin e compagnia: il pezzo già composto va eseguito in modo impeccabile, interpretandolo al meglio. «Miles Davis non è Mozart: cervello di jazzisti e pianisti classici funziona in modo diverso», è la conclusione. Ma la ricerca non ha validità solo in ambito musicale. Varie analisi hanno dimostrato che la mente dei musicisti è perfetta per capire i segreti della neuroplasticità umana. Anni e anni di esercizio, infatti, la rendono un ottimo terreno d’esame. Le dimostrazioni non sono mancate. È stato provato che il cervello di un violinista risponde più prontamente al timbro di un violino, la mente di un trombettista a quello di una tromba. Non solo, a parità di anni di studio totali, chi impara a suonare da bambino ha maggiori connessioni neurali rispetto a coloro che hanno cominciato più tardi. «Si tratta di prove della capacità del nostro cervello di adattarsi alle esigenze dell’ambiente circostante, caratteristica fondamentale nella vita di tutti i giorni perché determina come agiamo e comunichiamo con gli altri», spiega Bianco. Ora si aggiunge un tassello in più.
Fondamentale. «Attraverso questo studio dimostriamo che basta fare attenzione a dettagli differenti per modificare la nostra mente». Una nota diversa perché l’intera musica cambi.