Corriere della Sera, 22 gennaio 2018
Reema la principessa della nuova Arabia: non chiedeteci rivoluzioni
Nella delegazione saudita in arrivo oggi a Davos c’è anche una donna: la principessa Reema bint Bandar, 42 anni (23 passati in America). Figlia dell’ex ambasciatore a Washington Bandar Bin Sultan, amico dei Bush, va a Davos a promuovere la Visione 2030, le riforme sociali ed economiche volute dall’erede al trono, Mohammed bin Salman, che nello sport promettono maggiori spazi per tutti e suggeriscono il nesso tra attività fisica e salute. A ottobre, è diventata la prima presidente donna della Federazione per le comunità sportive; poco dopo è stata annunciata l’apertura degli stadi alle saudite, realizzata nei giorni scorsi. Quel che a lungo era vietato (nel 2014 una saudita fu arrestata perché entrò vestita da uomo), ora è normale: venerdì, allo stadio di Gedda, donne in niqab (che lascia visibili solo gli occhi) ma anche ragazze con i capelli al vento sopra l’abaya (la tunica nera) esultavano nella «sezione famiglie».
Cosa è cambiato?
«Ci sono due mentalità quando si parla di cambiamento: rivoluzione o evoluzione. Regno Unito, Stati Uniti, Francia hanno scelto cambiamenti rivoluzionari ma crediamo che in Oriente sia più adatta l’evoluzione. Che rivoluzioni ci sono qui, ad eccezione di quella iraniana? Quante hanno avuto successo? C’è caos in Iraq, in Siria, e tuttora in Algeria. In Egitto è fallita, il Paese è tornato indietro a quel che era. Non si può applicare il processo di trasformazione occidentale alla nostra struttura sociale, gerarchica e assolutamente patriarcale. Siamo una società tribale: i capi raggiungono un consenso che scivola giù. Per l’Occidente non siamo abbastanza veloci. Ma non facciamo questo per le donne italiane, francesi o americane. Non possiamo perdere il contatto con la comunità. La guida dell’auto per le donne e l’accesso agli stadi sembrano cose improvvise ma fanno parte del dibattito da anni: è un metodo di cambiamento più lento».
Sembra che le autorità non vogliano che le voci «liberal» si esprimano troppo a favore di questi cambiamenti, così come hanno fatto tacere gli ultraconservatori che sono contrari.
«Cerchiamo la via di mezzo. Se hai una visione non puoi avere venti voci, deve esserci una leadership chiara. Non si può cucinare con troppi cuochi ai fornelli».
Nel 2016 avete mandato 4 atlete alle Olimpiadi, per la seconda volta nella Storia, ma erano allenate all’estero. Qui nelle scuole pubbliche femminili l’educazione fisica non esisteva: questo cambierà?
«L’autorizzazione è partita a settembre. Ci si può chiedere perché non ci siano ancora insegnanti di educazione fisica nelle scuole. Ma la formazione richiede almeno due anni: saranno responsabili dei corpi, dei cuori e dell’anima dei giovani. Per accelerare abbiamo formato 18 insegnanti che ora fungono da educatori nelle regioni, prevediamo piena operatività in 1700 scuole entro il 2020».
Le palestre private femminili dovevano aprire con licenze per fisioterapia o permessi da sartorie con saloni di bellezza; spesso operavano senza licenza, in una zona grigia della legalità. E ora?
«Abbiamo iniziato a dare licenze a giugno: 45 nelle prime 24 ore, altre 500 sono state pre-approvate».
Se non avesse restrizioni, cosa farebbe?
«Non ho restrizioni nei miei programmi, ma devo tener conto dei livelli di tolleranza delle comunità. Alcune regioni saudite sono molto più progressiste di altre. Bisogna domandarsi se la comunità accetta che madri, padri, figli e figlie giochino a pallavolo insieme, o preferisce che le giovani donne stiano in uno spazio e i maschi in un altro. Un buon programma funziona solo se ha un buon tasso di adozione».
Nel weekend al Food Festival di Gedda, la città saudita più aperta, c’erano DJ e musica, ragazze senza velo in un ambiente misto con i ragazzi, anche se restie a danzare. Sarà possibile autorizzare palestre miste?
«No, non lo sarà».
Nemmeno per i minorenni?
«Per i bambini, prima della pubertà, sì. Ne abbiamo approvate tre».
È vero che in passato l’Arabia Saudita si è proposta come sede di Olimpiadi «separate per sesso» (i maschi ospitati nel Regno, le donne in Bahrain)?
«Era una vecchia idea, risale a 10 anni fa. Ora non se ne parla, di certo non per le prossime tre Olimpiadi. Ma abbiamo ospitato la Federazione internazionale degli scacchi lo scorso mese, e c’erano donne e uomini nella hall e sul palco».
Una ragazza ucraina rifiutò di partecipare, dichiarando che non voleva mettere il velo.
«È un suo diritto, anche se in Iran era andata e lo aveva portato. Ci spiace non sia venuta, avrebbe visto che rispettavamo l’uniforme della federazione internazionale: pantaloni neri, camicia bianca e giacca, uguali per uomini e donne, e non c’era obbligo di velo per le straniere».
Quanto l’ha influenzata vivere in America?
«Nella mia scuola in Virginia non c’erano spazi per l’educazione fisica: spostavamo i banchi, facevamo sport in classe. Qui come lì ci saranno casi di eccellenza e altri che non lo sono. Ma non ci ispiriamo ad un singolo Paese: l’America e la Germania hanno ottimi programmi per coinvolgere la comunità, in Gran Bretagna i medici prescrivono l’attività fisica, in Italia e Spagna le accademie di calcio. Il Canada era come noi un’economia basta su un solo sport maschile (loro l’hockey, noi il calcio) e ora è multi-sportivo».
Fare network con donne come Angela Merkel e Ivanka Trump può essere utile?
«È gratificante vedere altre donne che rompono il ciclo del dominio maschile. Conosco Ivanka perché entrambe abbiamo lavorato nella moda, ma in politica non abbiamo davvero interagito. E Merkel è una grande leader, un’ispirazione. Ma per il mio lavoro ha impatto maggiore conoscere chi si occupa dei curriculum di educazione fisica».