Corriere della Sera, 21 gennaio 2018
I guerrieri masai vogliono il marchio. «Chi usa la nostra immagine paghi». Mille aziende «sfruttano» il nome e i simboli del loro popolo. Dalla moda alle auto
Masai: pastori, guerrieri e adesso (giustamente) fieri difensori di un marchio antichissimo. Il loro. Non le cicatrici ornamentali fotografate da turisti di passaggio, ma un vero brand che funziona nelle distese del business. Un nome sfruttato da oltre mille aziende nel mondo, mentre per i nomadi più celebrati dell’Africa sono tempi duri. I bambini masai faticano ad andare a scuola, le mandrie muoiono per il global warming mentre i marchi globali utilizzano l’immagine (e lo spoglio guardaroba) di un popolo di quasi 2 milioni di abitanti che si muove perennemente sulla soglia della povertà. La (rinnovata) denuncia viene dagli attivisti di Light Years Ip, un gruppo con base negli Usa. Che parlano di royalties «inevase» per centinaia di milioni. Dalla moda al settore dell’automobile. Masai è un nome che «tira». E che non ha copyright. Almeno finora. Ron Layton, un neozelandese che ha già aiutato a registrare «il caffè dell’Etiopia» proteggendolo dalle grandi catene come Starbucks, ha preso a cuore la causa dei guerrieri-pastori dell’Africa Orientale, per lo più disseminati a cavallo del Kilimangiaro tra il sud del Kenya e i nord della Tanzania. «Se qualcuno vuole usare l’immagine di una popstar come Taylor Swift, lei chiede e ottiene almeno il 5%. Perché i Masai non possono ottenere lo stesso trattamento?».
In qualche caso hanno già cominciato. Isaac ole Tilolo, 52 anni, presidente del ramo kenyano del «Masai Intellectual Property Initiative», ha raccontato sulla prima pagina del Financial Times del primo accordo raggiunto. La Koy Clothing, ditta d’abbigliamento britannica, ha accettato di pagare per l’utilizzo del «design Masai», a cui diversi grandi della moda si sono ispirati. Omaggio o saccheggio? È il tema controverso della «cultural appropriation», l’appropriazione culturale più o meno indebita che ciascuno tende a declinare a proprio vantaggio. Sud contro Nord del mondo. Post-colonizzati contro neo-colonialisti. È l’altra faccia della contraffazione, che generalmente ha visto perdere le popolazioni indigene. Dalle coperte delle donne del Lesotho copiate da Louis Vuitton a Stella McCartney accusata di «rubare» i motivi Ankara per le collezioni 2018.
Sul terreno della «cultural appropriation» ci sono attacchi al limite del grottesco: nel 2016, in una università Usa, una giovane afro-americana intimò a uno studente bianco di tagliarsi le treccine «perché appartengono alla cultura nera» (e il video fu visto da 4 milioni di persone). Ma la richiesta di fondo, nella terra dei masai, è ragionevole: vuoi «copiare» una shúkà, la tradizionale toga rosso vivo, o uno degli sgargianti kanga (letteralmente «gallina faraona» in swahili)? Paga i diritti chi li ha inventati. Altrimenti con che faccia denunci la piaga delle merci «taroccate» sui marciapiedi? Al di là della questione copyright, sarebbe (anche) una questione etica: come si fa a mettere in vetrina una camicia da 2.400 euro ispirata ai disegni dello stile Basotho, senza impegnarsi nel Paese di origine (il Lesotho) dove metà degli abitanti vive con meno di 1,25 dollari al giorno?
Se le multinazionali non ci sentono, i masai si affidano agli avvocati. Battaglia più dura (e costosa) che inseguire i bracconieri di elefanti nello Tsavo National Park. Sono anni che gruppi come quello guidato da Ron Layton cercano di chiamare al tavolo delle trattative i rappresentanti dei grandi marchi. Che, in passato, arrivavano sempre troppo tardi, quando per esempio la Land Rover giurava di aver sospeso l’utilizzo del nome Masai per un fuoristrada. Nel 2018, il precedente del marchio Koy Clothing fa ben sperare. «Esuj erashe ng’ejuk emusana», dice un proverbio Masai: «Se un’idea è buona, altri la copieranno».