La Stampa, 22 gennaio 2018
Fabio Sargentini celebra alla Gnam di Roma i 60 anni della sua galleria L’Attico: Ho messo a ferro e fuoco l’arte contemporanea
«Ho voluto dare a questa mostra, che occupa tutto il Salone Centrale della Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, un titolo, “Scorribanda”, che rispecchiasse lo spirito d’avventura che mi ha animato nella conduzione dell’Attico». Seduto nel salotto della sua casa in via del Paradiso a Roma, Fabio Sargentini descrive così la rassegna che celebra i 60 anni della galleria d’arte fondata nel 1957 in piazza di Spagna da suo padre Bruno, un funzionario statale che per una delusione di carriera decise di fare il gallerista portandosi dietro il figlio diciottenne che in poco tempo sarebbe diventato una delle personalità più rivoluzionarie sul panorama dell’arte contemporanea degli Anni 60. Ma non ci sarà solo una mostra alla Gnam di Roma, aperta al pubblico da domani al 4 marzo. «Il 26 febbraio insieme con Elsa Agalbato metteremo in scena Art Will Never Die, un’azione di 15 minuti con 100 performance. Tutto questo anche per celebrare la donazione alla Gnam del mio archivio».
Un caso raro in Italia, anche perché mi pare le abbiano offerto parecchi soldi.
«Quattro milioni di euro che mi avrebbero fatto pure comodo, ma credo giusto che l’archivio rimanga a Roma».
Roma, la sua Sirena…
«Irresistibile! Anche alla fine degli Anni 60, avendo molti rapporti con artisti americani, ci fu la tentazione di trasferirsi a New York. Non sapevo che fare. Andai dal mio psicanalista che mi disse di rimanere a scrivere poesie lungo il Tevere».
La galleria di suo padre di cosa si occupava?
«Del secondo informale, Leoncillo, Morlotti, Bendini... artisti che furono bruciati dall’arrivo degli americani della Pop Art alla Biennale di Venezia del 1963».
I rapporti con suo padre per quanto riguardava la scelta degli artisti diventarono complicati…
«Quando incontro Pino Pascali inizio a correre troppo in avanti. Mio padre che non capisce e se ne va, io rimango in piazza di Spagna. Uno spazio che metto a ferro e fuoco ma mi sta stretto, non corrisponde più alle esigenze di quello che sta accadendo nel mondo dell’arte».
Come arriva a Pascali?
«Vedo nel 1965 la mostra dei Cannoni che Pino fa da Gian Enzo Sperone a Torino. Plinio De Martiis che rappresenta Pascali con la sua galleria La Tartaruga si rifiuta di esporli a Roma... si rende conto! Io rimango folgorato, chiamo Pascali. Nell’ottobre del ’66 mostro in galleria Il mare bianco, la prima installazione in Italia che invade tutto. Lo spazio della galleria tradizionale non regge più, il pubblico non ci sta, praticamente è spinto fuori».
Allora cosa fa?
«Rimango ancora per qualche tempo. Porto Jannis Kounellis con la mostra delle Rose nere e le gabbie di uccellini vivi, siamo nel marzo del 1967».
Iniziano a entrare elementi naturali che preannunciano una rivoluzione nell’uso dei materiali da parte degli artisti – e qui parte la discussione su dove sia nata l’Arte Povera.
«Nel giugno del 1967, tre mesi prima della mostra curata da Germano Celant alla Bertesca di Genova, io organizzo “Fuoco, immagine, acqua, terra” con Bignardi, Ceroli, Gilardi, Kounellis, Pascali, Pistoletto. Per Celant è una sollecitazione enorme che usa con grande astuzia».
In che senso?
«Che ci appiccica la teoria per altro molto debole dell’arte come guerriglia e trasforma in Arte Povera la definizione di Teatro Povero del regista polacco Grotowski, ma di fatto la rivoluzione sta nei materiali, non nella politica».
Lei come reagisce?
«Benissimo, sono felice che i nostri impulsi siano stati la scintilla di un nuovo movimento artistico».
Dove sono allora i problemi con Celant?
«I problemi iniziano quando lui vuole appropriarsi la primogenitura sull’uso della musica e della performance. Sono io che introduco il corpo come elemento essenziale delle nuove pratiche artistiche, prima con Pistoletto che coinvolge il Living Theatre, poi con Simone Forti e la mostra “Ginnastica mentale” che trasforma la galleria in una palestra. Più tardi, nel giugno del ’69, organizzo il festival “Danza Volo Musica Dinamite” facendo arrivare dall’America gente come La Monte Young, Terry Riley, Tricia Brown che mi fulmina dicendomi “Io non danzo, volo!”».
Come reagivano gli artisti all’arrivo della danza e della performance?
«Cy Twombly, che viveva a Roma, era entusiasta. Gli italiani invece molto sospettosi e provinciali, un difetto che penalizzerà il lavoro di molti».
A questo punto però L’Attico si è trasferito in un garage.
«Via Beccaria 22, dove il 23 dicembre celebro il ’68 procurandomi non so come una pizza 16 mm del film di Jean-Luc Godard sul Maggio francese che proietto nel nuovo spazio che poi aprirà a gennaio con i 12 cavalli di Kounellis».
Un’altra rivoluzione.
«Non solo: poi arriverà Eliseo Mattiacci con il Trattore e Mario Merz entrerà in mostra con la sua Simca e la lascerà lì. È uno spazio unico al mondo che lancerà la moda degli spazi industriali come spazi espositivi. A New York a un’inaugurazione nessuno mi conosce ma sento gente che parla dei cavalli in galleria».
Pascali muore nel settembre del ’68.
«È un trauma per me... entro in analisi».
Che succede con il Garage?
«Nel ’76 lo allago, lo chiudo e mi trasferisco qui in via del Paradiso. Ma inizio ad avere problemi nel subordinarmi agli artisti che non apprezzano molto la mia stessa natura artistica, si sentono spodestati».
Così nel ’78 finisce l’esperienza della galleria. Perché?
«Alla Biennale di Venezia due imbianchini mi ridipingono per sbaglio la famosa “porta” di Duchamp che avevo pagato 110 milioni di lire vendendomi due case... Vago per Venezia distrutto. Su un vaporetto incontro Sandro Chia ed Enzo Cucchi, nuove stelle nascenti del ritorno alla pittura. Quando sentono la storia della porta si mettono a sghignazzare. Capisco che lo spirito rivoluzionario della mia generazione è finito. Avrei ricominciato negli Anni Ottanta perché non avevo più soldi».
Si butta sul teatro.
«Chiudo la galleria con la performance Ritratto Controritratto in un solo Ritratto. Poi nel ’79 esordisco con Peter Pan nella cantina Beat 72 di Carmelo Bene».
Lei ha avuto rapporti intensi con Gino De Dominicis. Poi però, a un certo punto, si sono interrotti.
«Ero contrario al famoso Mongoloide della Biennale del ’72, anche se lo difesi dandogli il mio avvocato. Ma quando un giorno mi propose seriamente di trovare qualcuno che si era distrutto la faccia in un incidente per convincerlo a farsi fare un intervento di chirurgia plastica che gli trasformasse il volto in un quadro cubista con il naso sulla fronte e due orecchie su un lato... capii che aveva perso la testa, era entrato in un delirio di onnipotenza che non mi interessava più».
Con Celant che rapporti ha oggi?
«Ci siamo rivisti ai funerali di Kounellis, ci siamo abbracciati. Siamo coetanei, 78 anni. Abbiamo fatto le stesse battaglie e percorso tanta strada assieme. Queste sono le cose importanti della vita. Cosa importa dove è nata l’Arte Povera».