il Fatto Quotidiano, 22 gennaio 2018
Don Matteo piace perché non assomiglia ai preti veri
In tempi di secolarizzazione galoppante, il popolarissimo prete-investigatore televisivo Don Matteo rappresenta un magnifico spot per la Chiesa Cattolica: incarna la figura del sacerdote ideale, della guida spirituale modello. Terence Hill è un attore eternamente giovane malgrado i quasi ottant’anni, è bello, alto, biondo, è fisicamente prestante e così agile da scendere con una sola mossa dalla sua vecchia bicicletta.
Don Matteo vive in una bellissima canonica, arredata con gusto ed è un tipo elegante, con la sua lunga tonaca nera e il basco sulla testa, il corpo curato e slanciato. Poi è simpatico e intelligentissimo, scopre prima dei carabinieri, anche grazie alla complicità del maresciallo Cecchini (il bravo Nino Frassica), i colpevoli degli innumerevoli reati che si consumano in quel magnifico angolo di Umbria (prima Gubbio ora Spoleto) dove la serie è girata.
È inoltre un uomo totalmente devoto alla causa della fede e al servizio dell’istituzione, perfettamente e completamente asessuato, privo di una vita privata e intima, senza contraddizioni, sofferenze, lacerazioni interne, stupide complessità esistenziali, in definitiva senza desideri che non siano quelli di servire l’istituzione che ama e il suo popolo, credente e non. La gente gli porta rispetto, gli chiede consiglio e gli dà del lei; lui usa sempre un tu inferiorizzante e tratta tutti, vecchi e giovani, con la paternalistica sollecitudine che meritano le pecorelle di un gregge di anime smarrite, persone inferiori per status e dignità. Non ha ovviamente una famiglia propria, ma vive con la perpetua e il sacrestano, bruttini e un po’ imbranati, ma anche onesti e volenterosi.
Un “lei” più rispettoso Don Matteo lo adopera solo con i capi della locale stazione dei carabinieri, riconosciuti come suoi pari nella gerarchia sociale, come persone davvero degne di rispetto e di autentica considerazione. Nella serie di Rai1 al prete in sottana nera è attribuito il monopolio assoluto della virtù: in ogni episodio Don Matteo impartisce qualche lezioncina moralistica, spiega, soprattutto ai colpevoli, quale sia il vero senso della vita e illustra il valore e la bellezza della conversione al cristianesimo e della redenzione. È un pastore misericordioso e comprensivo, sempre capace di trovare qualcosa di buono in ogni creatura, anche nella più abbietta, e di esaltare le ragioni dell’amore e del perdono. Insomma, un curatore di anime in stile Francesco, che insiste sulla bontà e la comprensione più che sulla condanna e il castigo, sulla promessa della salvezza più che sulla minaccia della perdizione.
In virtù di tutte queste qualità, e forse di altre ancora, Don Matteo è il prete ideale: sensibile, misericordioso, paterno, giusto, generoso, incorruttibile, privo di passioni o di interessi sessuali o di altro genere. Insomma un Cristo in miniatura per i nostri tempi, certamente più divino che umano.
La realtà è un’altra cosa, dura e prosaica. In quella umbra, i parroci vanno in pensione, come altrove, a settantacinque anni, non si tingono i capelli e sono sempre più stranieri, vengono casomai dall’Africa o dalla Polonia, la perpetua in casa immagino non ce l’abbiano mai e tantomeno credo che possano permettersi un sacrestano. Dirigono parrocchie sempre più spopolate, frequentate al massimo da qualche vecchietta, hanno perduto molte delle antiche velleità di essere gli unici mediatori tra il popolo e Dio, hanno spesso delle relazioni sentimentali e vivono delle vite ordinarie, fatte quindi anche di drammi, errori e ripensamenti, talvolta con un sovrappiù di solitudine e di angoscia, e quindi di alcool, di bulimia, di vita disordinata o di altre, ancor meno confessabili, perversioni. Raramente abitano in case arredate con cura come quella di Don Matteo e, se indossano la tonaca, significa che appartengono all’estrema destra clericale, quella che rimpiange la Chiesa che precedeva il Concilio, la messa in latino, il clericalismo duro e puro, la morale tradizionale.
Insomma, i preti veri, quelli in carne ed ossa, sono molto diversi da quello idealizzato della fiction. Sono esseri umani finiti, per qualche ragione, a svolgere una professione in difficoltà, a fare un mestiere sempre meno ambito e rispettato.
Il successo di Don Matteo è quello di una favola reazionaria e nostalgica e riflette forse il nostro desiderio collettivo, la nostra fantasia regressiva e infantile, di pensare che esista in qualche luogo remoto della provincia italiana un luogo come quell’immaginaria parrocchia di Spoleto, nella quale i preti sono belli e atletici, indossano la veste, non hanno vizi, ma solo virtù e dispensano a pieni mani, come papà teneri e affettuosi, amore e misericordia per tutti, grandi e piccini.
Nelle parrocchie e negli oratori non ci entriamo più da tempo e possiamo quindi illuderci, non conoscendo il “clero reale”, che quella favola possa essere realtà. Per la Chiesa, Don Matteo è un bello spot: non riporta sicuramente la gente in Chiesa, non produce di certo vocazioni al sacerdozio, ma ne riabilita l’immagine offuscata dagli scandali e dal prepotente montare di una secolarizzazione che sbriciola l’autorevolezza e l’importanza sociale del suo clero. Chissà che anche l’otto per mille non ne risenta favorevolmente.