il Fatto Quotidiano, 22 gennaio 2018
Fca, in Italia i conti tornano solo per Elkann e Marchionne
Quest’anno negli Stati Uniti i 60 mila dipendenti di Fca riceveranno un extrabonus di 2 mila dollari e lo stabilimento di Warren, in Michigan, avrà un ulteriore investimento da un miliardo con l’assunzione di 2.500 nuovi dipendenti, che si sommano ai 2.000 di un anno fa. Sono, secondo l’azienda, la conseguenze della riforma fiscale voluta dal presidente Donald Trump, che ha abbassato le tasse sui profitti aziendali, e del previsto trasferimento in Usa della produzione dei pick-up Ram 1500 ora assemblati in Messico. In pratica, lo slogan con cui si è inaugurata l’amministrazione di Trump, “America first”, è diventato la parola d’ordine dell’amminstratore delegato di Fca, Sergio Marchionne. Non c’è da stupirsene, visto che dal Nord America, dove il mercato chiede suv e furgoni pick-up, oggi arrivano i due terzi della redditività del gruppo, un dato che secondo gli analisti raggiungerà l’80% a fine anno.
Diversa la situazione negli ex stabilimenti Fiat in Italia. La piena occupazione, più volte promessa da Marchionne, non sarà raggiunta neanche quest’anno, così come non ci sono stati i 20 miliardi d’investimenti promessi nel 2010 con il progetto Fabbrica Italia e un l’aumento di produzione a 1,4 milioni di vetture: siamo fermi a poco più di un milione. Ci sono invece cassa integrazione per i dipendenti di Mirafiori, Melfi, Grugliasco, contratti di solidarietà a Mirafiori e a Pomigliano (che vive nell’incertezza, con la produzione della Panda che sarà spostata nello stabilimento polacco di Tychy e quella dei nuovi modelli “premium” Alfa Romeo che per ora è un’altra promessa), mentre a Cassino nel novembre scorso 530 interinali sono stati mandati a casa con un sms.
All’inizio del 2019 Marchionne lascerà il gruppo, che ha gestito per 15 anni. “Sono stanco, penserò ad altro”, ha detto la settimana scorsa al salone dell’auto di Detroit. Per gli azionisti e per le due aziende in crisi che ha unito nel 2009 – una Fiat in perdita e super indebitata e una Chrysler fallita –, Marchionne ha fatto un mezzo miracolo. Fca oggi vale 10 volte quanto valevano i due gruppi al suo arrivo e i conti fanno faville. Gli obiettivi del piano industriale 2014-2018, rivisti al rialzo, sono ormai a portata di mano: 136 miliardi di euro di ricavi di gruppo (componentistica compresa), 7 milioni di auto prodotte, 5 miliardi di euro di profitti netti e il debito in via di azzeramento. Se si aggiunge la prospettiva di vendita, la cosiddetta valorizzazione, della componentistica Magneti Marelli e della robotica Comau, si comprende come il titolo in borsa sia triplicato in tre anni, il 30% solo nelle ultime tre settimane.
Una storia in cui l’Italia, con gli storici marchi Fiat e Lancia in perdita, i problemi occupazionali, e anche orfana della sede del gruppo ora divisa tra Olanda (quella legale) e Gran Bretagna (quella fiscale) sembra relegata al ruolo della Cenerentola. “Il problema è che in America c’è un’accordo col governo che le parti stanno rispettando; da noi non c’è niente”, dice Michele De Palma, responsabile auto della Fiom Cgil, il sindacato marginalizzato da Fca da quando rifiutò di firmare nel 2010 l’introduzione a Pomigliano e Mirafiori del World class manufacturing, il fordismo spinto, con pause da 10 minuti, straordinari a sorpresa e flessibilità spinta. “Marchionne oltre alla piena occupazione aveva assicurato che, rinunciando al contratto nazionale, si sarebbero avuti salari più alti, come quelli tedeschi. Il risultato invece è che i lavoratori Fca hanno una paga base più bassa degli altri metalmeccanici italiani”, dice ancora De Palma.
Secondo Giuseppe Berta, storico dell’Economia alla Bocconi, esperto dell’industria automobilistica, “il problema è che la politica di Trump sfida la nostra capacità di tenuta. Già dal 2003-2004 la Fiat non è più italiana, e non c’è stato molto impegno per mantenere la produzione in Italia. È una questione di peso politico. Anche Francia e Germania favoriscono il settore auto nazionale, l’Italia non l’ha fatto. Ci si potrebbe immaginare una Volkswagen fuori dalla Germania?”. Il Jobs act del governo Renzi, che avrebbe dovuto rilanciare investimenti e produzione, ha fatto di Marchionne il modello manageriale di riferimento. Ma una politica industriale per l’auto è evidentemente mancata. L’ad di Fca, incassate le lodi e la flessibilità, ha proseguito sulla strada americana e all’ex premier, ormai inutile, ha voltato le spalle: “Quello che è successo a Renzi non lo capisco. Quello che appoggiavo non lo vedo da tempo”, ha detto a Detroit
Nonostante i 7,6 miliardi di euro che, come ha calcolato la Cgia di Mestre, sono stati elargiti a Fiat negli anni (ammortizzatori sociali esclusi) l’Italia resta in disparte. Il core business è altrove. L’era Marchionne si chiuderà in bellezza, soprattutto per gli eredi Agnelli e per lui, che nel 2017 ha portato a casa stock da 2,8 milioni di azioni, pari a 53 milioni di euro. Ma nelle strategie a lungo termine del gruppo ci sono più incertezze che altro. “Fino a tre mesi fa Marchionne diceva che l’auto elettrica non era il futuro, che per ogni Fiat 500 prodotta in Usa Fca perdeva 20 mila dollari”, spiega Salvatore Gaziano, analista del settore auto, strategist della società di consulenza Soldi Expert. “Ora – prosegue – ha detto che entro il 2025 metà del mercato sarà fatto di auto elettriche. Un’affermazione che è in contraddizione con l’ambizione dichiarata di vendere 5 milioni di veicoli Jeep l’anno entro il 2022”. Auto ecologica, auto elettrica, auto a guida autonoma: il mercato sta evolvendo, difficilmente i suv resteranno il prodotto di punta e per stare dietro ai costi di ricerca ci vogliono spalle molto larghe, maggiori di quelle di Fca.