il Fatto Quotidiano, 21 gennaio 2018
Intervista a Leonardo Pieraccioni: I miei genitori si sono sempre stupiti del mio successo. E anche io
Il Ciclone non è solo uno dei suoi film più celebri; il Ciclone è lo stesso Leonardo Pieraccioni quando parla: un profluvio ininterrotto, una battuta, un aneddoto, una battuta dentro a un aneddoto. Ieri. Oggi. Di nuovo ieri. Con una Stella Polare a segnare il suo cammino: la leggerezza, “a quella non rinuncio, anche se tutte le mie donne alla fine del rapporto mi accusano sempre della stessa colpa: la superficialità”. A giugno inizierà a girare il suo nuovo film (“ma non so ancora quando andrà in sala”), mentre il prossimo 13 aprile porterà a New York lo show pensato e recitato con i suoi amici di sempre: Giorgio Panariello e Carlo Conti.
Nel trio manca Ceccherini che al “Fatto” ha raccontato: “Con Panariello, Conti e Pieraccioni abbiamo frustato Renzi con l’ortica e quando era bambino”…
Purtroppo non è vero; ma nel caso, più delle frustate d’ortica, gli avremmo dedicato una bella “Masa”.
Traduzione di Masa.
Afferrare la testa del (mal)capitato, stringerla tra avambraccio e fianco, quindi con l’altra mano sfregare le nocche sul cuoio capelluto.
Gesto d’amicizia.
Un classico dei miei tempi, oggi sarebbe catalogato sotto la voce “bullismo”, mentre ogni tanto c’era un pizzico d’affetto.
Anche Conti è esperto di Masa?
Carlo? Mai. Lui non è proprio in grado, già da piccolo ha sempre mostrato una conformazione morale vicina a quella di un prete di provincia, tutto buono e dolce. Comprensivo. Distensivo.
Mica come voi altri.
Il vero Lucignolo del gruppo sono io, mentre il Conti mi ha sempre smontato.
Ingrato.
Ora che ci penso Carlo e il Ceccherini sono della stessa pasta, ma con soluzioni differenti.
Conti ha dichiarato al “Corriere” di aver compreso dell’assenza di un padre mentre giocava a tennis con lei.
Aspetti, premessa: noi al massimo palleggiavamo a tennis; tutti e due non siamo mai stati dei grandi sportivi, anzi stavamo allo sport come Ceccherini alla religione o alla dottrina.
Detto questo…
È una vicenda delicata: con Carlo siamo amici fin da bambini, quasi sempre insieme. Un giorno il mio babbo ci viene a vedere e si mette dietro di me. Quel gesto fece comprendere al mio amico di non avere una figura maschile al suo fianco. Percepì la mancanza. Una botta micidiale, una di quelle che vanno assorbite da soli; per questo mi ha svelato l’episodio dopo diversi anni.
Suo padre è una fonte di sostegno incondizionato?
Ma neanche per scherzo. È sempre stato un osservatore esterno e dubbioso della mia vita, e per questo era su quel campo da tennis: controllava. Appena poteva, controllava.
E da grande?
Uguale. All’inizio della carriera mi scritturarono per sedici spettacoli in quindici giorni: babbo non ne perse neanche uno, non capiva il motivo per il quale quelle persone pagassero per sentirmi; per lui ero sempre il bambino di nove o dieci anni che a Natale leggeva i pensierini alla famiglia.
Pensierini divertenti…
Loro ridevano. Io soddisfatto.
Sua mamma?
Solidale con il babbo. Non mi ha mai detto “bravo”, piuttosto mi lanciava frasi del tipo: ‘Ma veramente sta andando così bene?’. E con toni tra il dubitativo e il preoccupato. A quel punto interveniva babbo e smontava le mie fatiche.
Ci restava male, lo ammetta.
Io ero più stupito di loro, avevano ragione. Però non dimenticherò mai il loro viso quando è arrivato l’assegno per Il Ciclone, e babbo: “Non è che poi lo devi restituire?” Non ci voleva credere, una cifra del genere davanti a lui, dentro casa, e senza alcuna “postilla” o fregatura.
Oggi la vedrà diversamente…
Per niente, la sorpresa c’è sempre. Mi spiego: per me il cinema e il palco sono un divertimento non una professione; non sento mai la fatica.
Poi lei è metodico.
Calibrato: un film ogni due anni e una tournée ogni venti sono una goduria totale; e non vivo lo stress delle recensioni o dei premi.
Le critiche non la toccano?
Per fortuna, no. Neanche le leggo, tanto ci pensa il Ceccherini.
È lui il “megafono”?
Sì, ma solo per quelle negative. Mi chiama con il tono vago: “Lo hai letto il Corriere”. Eh? “Lo hai acquistato il Corriere?”
E lei?
Gli rispondo: “Oh buffone, ma quando mai l’hai comprato!” A quel punto ridacchiando inizia a leggere l’eventuale stroncatura e il massimo del piacere lo raggiunse quando un articolo finì con un attacco personale: “Pieraccioni con quella faccia da Puffo…”.
Lì si è scocciato?
L’attacco personale non mi è garbato, mentre il giudizio sul film tutto sommato lo condividevo. L’unico stupore arriva dalla costanza di certi interventi: alcuni giornalisti non si stancano mai.
Com’era il pubblico degli inizi?
Una volta sono finito in una discoteca della Val d’Arno dove il proprietario si divertiva nel lasciare all’infinito i comici sul palco: scommetteva sul grado di resistenza al pubblico.
Ha battuto il record?
Non credo, però ho ancora nella testa la voce di uno spettatore: dopo ogni battuta, urlava ‘la tu’ sorella’; e per tutta la sera.
Ha mai avuto dubbi sul suo percorso artistico?
All’inizio della carriera: grazie al babbo ero entrato alla Siette (azienda di fibre ottiche); dopo un po’ di tempo decido di prendere un anno sabbatico e nonostante lo sconforto in casa: ‘Ma sei impazzito? Cosa hai in testa?’, la litania quotidiana dei miei genitori.
Quella volta non era tranquillo…
L’agitazione è arrivata alla fine dell’anno, quando mi sono licenziato, e dentro avevo qualche dubbio sulla mia reale lucidità mentale. Insomma, temevo la cazzata, avevo perso un po’ della mia leggerezza.
A differenza della maggior parte dei suoi colleghi, lei non avverte stress.
Gli altri mi fanno tenerezza, e per questo abito a Firenze, mica a Roma o a Milano; sono rimasto qui e non intendo muovermi: ancora frequento gli amici di trenta e passa anni fa, i riti del bar, due chiacchiere, la lettura del giornale, qualche pettegolezzo, qualche scherzo. Un microcosmo costruito nei secoli, mica negli anni.
Nel suo mondo artistico, qual è l’errore più comune?
In molti non comprendono la necessità di dover togliere e non mettere; la sottrazione è quasi sempre un arricchimento per raggiungere lo scopo.
Un esempio?
L’altro giorno ho ascoltato Tom Hanks raccontare lo stile di lavoro con un regista come Steven Spielberg: ‘Con lui si gira senza provare’. Così. Pronti, via. Mentre quasi tutti i miei colleghi prima del ciak si lanciano in ore e ore di lettura del copione, una rottura di palle non precisabile.
Da corazzata Potëmkin.
Nei film e negli spettacoli è necessario puntare sulla verità, anche rabberciata, e poi sul cuore, ed evitare le seduzioni da mestierante.
La chiamano mai “maestro”?
Al massimo sono un supplente di periferia (Ci pensa)… però non mi dispiacerebbe offrire l’idea di essere un ‘maestro di leggerezza’.
Anche nei rapporti affettivi?
Come le dicevo, con le donne il refrain è sempre lo stesso: ‘Sei un superficiale!’.
La sua replica?
La troverà nel mio prossimo film, nel quale narrerò le peripezie di un cinquantenne.
Lei ha spesso offerto la “guancia” al gossip.
Mi ponga la domanda diretta.
Quale?
La stessa da bar, quella che mi pongono da anni gli amici: ‘Quante vengono con te solo perché ti chiami Pieraccioni?’.
Risposta?
Il novantaquattro per cento di quelle con cui sono stato, poi mi auguro che il passaggio dal cognome al nome sia breve.
Percentuale alta.
Alta e verificata: in Francia, Inghilterra o Stati Uniti la fatica con le donne è decisamente maggiore, lì la mia brochure non è ancora arrivata. Una volta ho sentito Vasco rispondere così a una domanda simile: ‘Io sono Vasco’.
E lei è Pieraccioni.
Ecco, da un po’ ho maturato la medesima soluzione, e questo presunto vantaggio non arriva da una vincita al Totocalcio…
Haber è celebre per stalkerizzare i registi.
Lui è un buono. E quando ti chiama lo fa per rammentarti quanto è buono e quanto ci tiene a questo lavoro.
Lo ha utilizzato molto.
Per Il Ciclone la sua parte era stata pensata per Francesco Salvi, poi un giorno mi fermo a un bar di Roma, lui passa, mi vede, si ferma e a perdifiato snocciola il suo repertorio e la successiva richiesta: ‘Leo che bello! Come stai? Che fai? Che bello! Allora, come va? Che bello. Hai un film? E io cosa faccio? Non c’è un ruolo per me?’.
L’ha frastornata.
Provo a replicare in maniera pseudo-furbetta: ‘Purtroppo non c’è un ruolo alla tua altezza’. E lui: ‘A me va benissimo’.
Povero Salvi…
La telefonata con lui fu imbarazzantissima.
Un attore che le piace.
Nic Nocella: nel film di Pupi Avati (Il figlio più piccolo) è stato super, per anni ci siamo inseguiti, mandati messaggi di reciproco apprezzamento, alla fine abbiamo lavorato insieme nel Professor Cenerentolo.
Neri Parenti ricorda: “Quando per un film ho tolto Anna Maria Barbera a Pieraccioni. Leo ha festeggiato mandandomi delle rose”.
È vero, ma lei è un personaggio alla Ceccherini o alla Tricarico: sono artisti imprevedibili, per loro vale la vecchia formula del genio e sregolatezza, dai quali non puoi pretendere la precisione assoluta, non puoi chiedere di stare alle nove del mattino sul set; però non sono come la maggior parte degli attori di oggi, diventati degli imprenditori di se stessi, dei Bill Gates da macchina da presa.
Neri Parenti è fiorentino come lei…
Quando ho scritto I Laureati sono andato da lui per chiedergli di firmare la regia. Gli racconto il film, nei dettagli, mi guarda e sentenzia: ‘Lo hai declinato bene, in maniera precisa: perché non lo giri tu?’.
Secondo Panariello lei è così tirchio da avere i coccodrilli nelle tasche…
Sono loro (include Conti) a tenere i coccodrilli, non io! E poi Giorgio pensi a come si veste, al suo look: a volte sembra una di quelle scimmiette del circo con le quali i bambini si fanno la foto… In realtà paga sempre una quinta persona.
Non è Ceccherini.
Lui è impegnato con Equitalia.
“Non mi annoio a non fare niente”. Parole sue.
E lo ribadisco: per me l’optimum è avere una e sottolineo una cosa al giorno. Basta. Il resto del tempo punto a vagabondare per casa, suonacchio la chitarra, vedo la tv, mando messaggi vocali a raffica, a volte rompo anche le palle con questi messaggi, scrivo canzoni mai pubblicate.
Vittime dei messaggi?
Tante. Ho scoperto che anche Edoardo Bennato è compulsivo come me, passiamo non so quanto tempo a scriverci e rispondere.
Lei affoga nelle serie tv?
Ecco, questo no. Ho visto solo 1992, la prima Gomorra e Sex and the City in tutte le sue declinazioni.
Primo concerto.
A 11 anni Francesco Guccini. Poi a 14 mi sono fatto portare a Bologna in via Paolo Fabbri 43, come un feticcio ho iniziato ad accarezzare la buchetta della posta, ho infilato un dito dentro, ho curiosato, e in primo piano ho visto un ombrello; lì mi sono fermato e ho pensato: “Anche per uno come Guccini, piove”
Una proiezione celestiale.
Per me uno come Guccini non poteva essere così umano da venir toccato dagli agenti atmosferici.
Un altro mito infranto è quello di Roberto Benigni.
Perché infranto? Una sera mi è sembrato più che altro un’entità astratta: entro in un ristorante di Roma, il ristoratore mi riconosce, e mi accompagna in una saletta riservata ‘perché c’è Benigni’. Entro e lo trovo solo al tavolo, piegato sul piatto, così gli dico: ‘Sembri Greta Garbo’.
Benigni le piace sempre?
Le sue idee non sono mai banali, a parte quelle politiche.
Tempo fa ha rivelato: “Non faccio sesso da tre anni”…
Realtà con difetto: non erano tre anni ma tre anni e sei mesi.
Asceta.
Quando l’ho raccontato neanche ci avevo riflettuto, il clamore successivo ha dato il peso all’affermazione. Per me era normale.
Quasi fisiologico.
Sì, finita la storia con Laura Torrisi, ho cercato il tempo giusto per metabolizzare il distacco, per comprendere i motivi del fallimento.
Gli amici lo sapevano?
Mi derubricavano a ‘depresso’, mentre stavo benissimo. Pensavo al sesso come un momento ridicolo, o quantomeno sopravvalutato.
Insomma, a giugno girerà un film su un cinquantenne…
(Si ferma dal profluvio di parole) Sa che questi 53 anni sono passati come il tempo di uno starnuto?
Tic, tac.
Secondo Mark Twain i giorni importanti della vita sono due, io sposo la linea di Ennio Flaiano e li aumento a cinque o sei…
E tutto il resto?
Il resto fa volume.
(Francesco Guccini canta in “Eskimo”: “Io come sempre faccio quel che posso, domani ci penserò… semmai”).