Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2018  gennaio 21 Domenica calendario

Ma che razza d’idea confusa. Abbiamo in comune con qualsiasi sconosciuto il 99,9% del DNA

Nei giorni scorsi Attilio Fontana, candidato del Centrodestra alle elezioni regionali in Lombardia, ha dichiarato a Radio Padania che la razza bianca è a rischio: «Dobbiamo decidere se la nostra etnia, la nostra razza bianca, la nostra società devono continuare a esistere o se devono essere cancellate». In un secondo momento Fontana si è corretto: è stato un lapsus, ha detto. Poi, in un terzo momento, ha cambiato ancora idea: «Dovrebbero cambiare anche la Costituzione perché è la prima a dire che esistono razze».
Sono seguite una serie di reazioni e di esternazioni, in un dibattito che ha assunto caratteri lievemente surreali. Linguisti e genetisti, antropologi e giuristi, sono stati interpellati sull’etimologia della parola razza, e sull’applicabilità all’uomo del concetto di razza. Ma è di questo che occorre parlare, è questo il problema che le parole di Fontana hanno sollevato?
A sgombrare il campo da molti equivoci ci ha pensato l’Associazione Genetica Italiana, pubblicando (http://www.associazionegeneticaitaliana.it/) una dichiarazione sul concetto di razza umana. Cose che si sanno da tempo, ma meglio ripeterle. La prima è che la parola stessa, razza, è un grande generatore di confusione. Nel linguaggio corrente, può definire l’umanità intera (Einstein, quando si qualifica come di «razza umana»), oppure una sua fetta, grande («la razza bianca») o piccola («la razza Piave»), o anche una famiglia (quando si dice «brutta razza»). Non c’è da stupirsi se, con tanti significati diversi, alla fine non ci si capisce.
Per questo, in genetica, si preferisce parlare di razze biologiche. Così le cose vanno un po’ meglio, ma non tanto. Secondo un grande evoluzionista, Ernst Mayr, popolazioni locali abbastanza diverse l’una dalle altre da poter essere distinte rappresentano diverse razze o sottospecie. Vuol dire che, se una certa specie è divisa in gruppi che vivono in regioni geografiche diverse, e se c’è modo di distinguerli in base al loro aspetto o al loro DNA, ciascun gruppo può essere chiamato razza. Il problema è che non è banale dire quando due popolazioni diverse lo sono «abbastanza».
Nonostante queste ambiguità, in certe specie possiamo tranquillamente dire che le razze esistono. Una è lo scimpanzé. Analizzando certi tratti di DNA si può dire con precisione da dove provenga uno scimpanzé di origine sconosciuta: gli scimpanzé hanno quattro razze. Ci sono però molte altre specie, in genere di creature mobili come uccelli o pesci di mare, in cui le popolazioni di diverse regioni non si distinguono fra loro, e quindi non formano razze biologiche. E noi, che siamo notoriamente così mobili, sotto questo aspetto siamo come gli scimpanzé o come i tonni?
(Meglio precisare, invece, che il confronto con cani e cavalli non ha senso. È vero: in tutte le specie domestiche di animali e piante ci sono razze o varietà ben distinte. Non si tratta però del risultato spontaneo dell’evoluzione, ma di incroci realizzati dall’uomo per ottenere cani grossi o cani piccoli, mele dolci o mele aspre, eccetera. In ogni caso, a livello di DNA, le differenze fra razze canine sono centinaia di volte più grandi di quelle fra persone di continenti diversi).
L’uomo è la specie più studiata, ma ancora non ci si è messi d’accordo su quante razze abbia; c’è chi dice due, chi dice tre, chi dice quattro, chi dice sessantatré. Vale anche oggi, ma questa frase tagliente l’ha scritta Charles Darwin nel 1871. Certo, le differenze ci sono, e si vedono: tutti sappiamo distinguere un senegalese da un giapponese. Ma fra Senegal e Giappone c’è tanta gente diversa, tante caratteristiche intermedie; dove cominciano i senegalesi, e dove i giapponesi?
In un certo senso, la storia della classificazione razziale umana è la storia dei tentativi di tracciare sulla mappa linee di confine. Tentativi vani: il grande numero di cataloghi razziali, ognuno in contraddizione con gli altri, è, se non la prova, un forte indizio che questi confini possono solo essere arbitrari. Ci penserà poi, nel 1962, Frank Livingstone, in un articolo intitolato «Sull’inesistenza delle razze umane» a mettere in chiaro che le nostre differenze sono sfumature di colori su una tavolozza in cui si passa dall’uno all’altro senza discontinuità.
Da allora si sono capite tante cose. La nostra specie è straordinariamente omogenea: le differenze fra due gorilla della stessa foresta è, in media, più grande di quella fra due persone di continenti diversi. Abbiamo in comune con qualsiasi sconosciuto il 99,9% del nostro DNA. E quell’1 per mille di differenze è rappresentato da varianti in gran parte cosmopolite, cioè presenti, a frequenze diverse, in tutto il pianeta: piccole sfumature, appunto: come nei tonni. Il nostro vicino di casa è, in media, più simile a noi degli abitanti di paesi lontani, ma ogni popolazione contiene un campionario molto vasto della variabilità di tutta la specie umana.
Fin qui la scienza. Ma è davvero di scienza che stiamo parlando? Mi sembra invece che la dichiarazione di Fontana abbia a che vedere con tutt’altro, cioè con i diritti delle persone: diritti che si vorrebbero diversi a seconda del gruppo, reale o immaginario, a cui le persone vengono attribuite. Se è così, ed è così, il problema non sta nelle parole usate a vanvera, ma nel riemergere del razzismo nel discorso pubblico. È un razzismo che non ha bisogno di teorie sulla razza per esistere e manifestarsi, e che ormai non è più il triste monopolio della destra xenofoba, se nel luglio 2017 Patrizia Prestipino, della Direzione del Partito Democratico, ha invocato misure a difesa della razza italiana. Altri hanno discusso in che misura atteggiamenti del genere possano portare qualche vantaggio elettorale, chissà poi quanto cospicuo. Qui è solo il caso di ricordare che secondo l’articolo 3 della Costituzione tutti i cittadini hanno pari dignità sociale, senza distinzione di razza (né di sesso, lingua, religione, opinioni politiche, eccetera). Al contrario di quanto pensa Attilio Fontana, nella Costituzione sta scritta quella roba lì proprio per escludere che si possano dire le cose che dice lui. Proporre iniziative in favore di questo o quel gruppo di persone individuate con un’etichetta razziale non va bene, e non tanto perché si evoca un nonsenso biologico, ma perché così ci si pone in contrasto frontale con la Costituzione.