Il Sole 24 Ore, 22 gennaio 2018
Il sentiero stretto della spending review
Nella cosiddetta Prima Repubblica, era in voga un abusato refrain: quando la questione da trattare era politicamente controversa, si istituiva una commissione. Non sembra sia andata diversamente nella Seconda Repubblica: il lavoro di commissioni e commissari stenta a trovare riscontro oggettivo nelle decisioni di politica economica. È innegabile che, soprattutto negli anni della grande crisi, si sia operato uno sforzo importante di contenimento della spesa pubblica. E tuttavia, se si guarda ai risultati, la “spending review”, intesa come accurata selezione e razionalizzazione strutturale della spesa, a dispetto dei vari commissari che si sono alternati a palazzo Chigi, non è ancora decollata a pieno. Con la recente riforma del Bilancio, il processo strutturale di revisione della spesa è stato incardinato nella fase di formazione dei saldi di finanza pubblica.
È sufficiente? Certamente no, perché l’azione di contenimento della spesa è operazione politica a tutto tondo, e dunque è qui che bisogna andare a ricercare la risposta al seguente quesito: la politica, intesa in senso lato, ha acquisito coscienza che solo attraverso la riorganizzazione della macchina pubblica si può puntare nel medio periodo al recupero di efficienza della spesa, aprendo con ciò gli spazi per finanziare la riduzione della pressione fiscale?
Se si guarda alle mirabolanti promesse di questa campagna elettorale, la conclusione non è incoraggiante. Ma anche laddove questa consapevolezza si facesse strada, esistono spazi reali di intervento?
Ci soccorre la ferrea logica dei numeri. Le stime più recenti, contenute nella Nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza, fissano a quota 843,5 miliardi il totale della spesa nel 2017. Per focalizzare l’attenzione su dove e come intervenire, occorre però escludere dal calcolo gli interessi passivi che servono a finanziare il debito (65,8 miliardi), e concentrarsi sul totale della spesa al netto di questa fondamentale componente, vale a dire sui 777,7 miliardi del totale delle spese finali.
Un’ ingente massa di risorse, in cui spicca al primo posto la spesa per pensioni (264,6 miliardi) magna pars del totale delle uscite per prestazioni sociali (343,8 miliardi). Seguono i redditi da lavoro dipendente, in sostanza gli stipendi per la nutrita platea dei lavoratori della Pubblica amministrazione, pari a 166,7 miliardi. Voci sostanzialmente incomprimibili, a meno che non si decida di intervenire in modo massiccio sulle pensioni e sugli stipendi in essere (si può immaginare il costo sociale ed elettorale di una scelta del genere).
Se escludiamo la componente degli investimenti (già duramente penalizzata negli anni della crisi) la rosa si restringe ai 137,4 miliardi dei “consumi intermedi”, tenendo peraltro conto che circa il 60% della spesa è gestita dalle autonomie locali (sono ad esempio le Regioni a governare i 112,5 miliardi di stanziamenti diretti alla sanità). Il tutto considerando che le proiezioni per i prossimi anni collocano il totale della spesa tra il 49,1% in rapporto al Pil del 2017 e il 46,5% del 2020.
Nel maggio del 2012, l’allora ministro per i Rapporti con il Parlamento, Piero Giarda, grande esperto di conti pubblici, stimò in circa 100 miliardi la spesa “potenzialmente aggredibile” a carico dello Stato, gli enti previdenziali, le regioni e gli enti locali. Carlo Cottarelli, commissario alla spending nel governo Letta e nella prima parte del governo Renzi, presentò nel marzo del 2014 un dettagliato elenco di possibili interventi: dalla riforma degli acquisti di beni e servizi da parte della pubblica amministrazione al riordino del pubblico impiego, dall’accelerazione dei fabbisogni standard alla pubblicazione telematica degli appalti pubblici, per finire con il taglio delle auto blu, il tetto dei 240mila euro agli stipendi dei dirigenti e la razionalizzazione dei trasferimenti alle imprese.
Poi il tema delle partecipate, e sulla base della ricognizione condotta allora da Vieri Ceriani (poi ripresa e finalizzata da altri due commissari alla spending, Roberto Perotti e Yoram Gutgeld) il taglio delle cosiddette “tax expenditures”, vale a dire del nutrito elenco di agevolazioni fiscali attualmente presenti nell’ordinamento: 444 secondo quanto censito dalla commissione presieduta da Mauro Maré. Proposte in parte accolte, in maggior misura accantonate, perché tagliare e razionalizzare comporta dei costi in termini di consenso, e dunque guai a parlarne in un paese che è in campagna elettorale permanente. Si preferisce se mai annunciare non meglio precisati “tagli agli sprechi”, senza peraltro precisare quali e a quanto ammonti l’effetto certo e documentato in termini di risparmi.
Spazi di razionalizzazione e dunque di minore spesa vi sono, ma serve innanzitutto la volontà politica di agire in questa direzione. Operazione da condurre a inizio legislatura, con risultati da accertare e se del caso incrementare a ridosso del termine del ciclo naturale di azione del Parlamento. Già perché, se guardiamo al confronto con i nostri partner europei (fonte Eurostat), il totale della spesa non è poi così lontano dalla media dell’intera Ue (46,3% del Pil).
Il problema è che dai noi – come si è visto – lo squilibrio si concentra sulla spesa per pensioni, ora attorno al 15,9% del Pil contro il 12,7% della media dell’Eurozona, e in aumento (nelle proiezioni della Ragioneria) fino al 16,3% nel 2044. Commissioni e commissari a parte, il tema del riordino della spesa pubblica è di primaria importanza. Argomento da affrontare nell’arco temporale di una legislatura – si diceva – ma quanto durerà la prossima?