Il Sole 24 Ore, 22 gennaio 2018
Il modello canadese che aiuta la Brexit. L’accordo Ceta tra Ottawa e Bruxelles potrebbe essere il punto di partenza per limitare i danni
«Al massimo daremo loro un Canada dry». È la battuta che circola a Bruxelles, con riferimento non tanto alla bevanda agli estratti di zenzero, quanto ai negoziati sulla futura relazione tra la Ue e Londra dopo il divorzio. Dopo l’opzione del modello svizzero o di quello norvegese, un accordo su ispirazione del Ceta, l’Accordo economico e commerciale globale siglato con il Canada, sembra negli ultimi tempi in pole position. Lo hanno citato, per ragioni diverse, i due capi negoziatori dalle parti opposte del tavolo, Michel Barnier (per la Ue) e David Davis (per la Gran Bretagna).
Non si tratterà di un semplice “copia e incolla”, precisano gli addetti ai lavori, ma questo accordo di libero scambio, il primo siglato con un Paese del G7, potrebbe rappresentare un punto di partenza per i negoziati che inizieranno a marzo. Con possibili integrazioni per arrivare a un «Canada plus», o persino a un «plus plus plus», a seconda degli aspetti che dovranno essere precisati e concordati. Un’ipotesi che non dispiacerebbe a Italia, Germania e Belgio, perché consentirebbe di limitare i danni della Brexit.
Un accordo di questo tipo – secondo le stime presentate dal ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda lo scorso novembre durante un convegno sulla Ue dopo l’addio di Londra – porterebbe a una riduzione tra i 350 e i 370 milioni di euro all’anno dell’export italiano in Gran Bretagna che vale oggi 22,5 miliardi. L’impatto sarebbe più contenuto rispetto a una hard Brexit che ci costerebbe circa 4,5 miliardi.
Non solo. Gli effetti di un accordo “alla canadese” sarebbero analoghi anche in caso di un’intesa su ispirazione di quella norvegese, che richiederebbe però un’integrazione più stretta con Bruxelles e un contributo al bilancio europeo (seppur limitato rispetto a quello attuale)in contrasto con i piani di Londra.
È stato lo stesso Barnier a ricordare la “linea rossa” fissata dalla Gran Bretagna che restrige il campo dei possibili accordi su cui ragionare. Con il divorzio dalla Ue, infatti, il Regno Unito vuole «riprendersi il controllo» della propria economia e non intende più riconoscere l’autorità della Corte di Giustizia Ue. Uno dei nodi da sciogliere riguarderà i servizi finanziari, che rappresentano circa il 12% del Pil britannico, e il ruolo della City che Londra vorrebbe tenersi stretta. Il premier francese Emmanuel Macron dal canto suo ha chiarito che l’addio al mercato unico riguarda anche la fine della libera circolazione dei capitali all’interno dell’Unione.
Un’uscita soft e ordinata della Gran Bretagna con un accordo ad ampio raggio sarebbe positivo per entrambe le parti. Il Regno Unito ha infatti una bilancia commerciale in deficit perenne ed è un’importante destinazione per le esportazioni di numerosi Paesi europei: per l’Italia è il quarto mercato, per Irlanda e Polonia il secondo e il terzo per Germania, Olanda, Spagna e Cipro.
Il negoziato sarà tutto politico e le incognite sono ancora numerose: bisognerà trovare un’unità di intenti della Ue, mentre Theresa May dovrà cercare il consenso all’interno del suo governo dove l’atteggiamento nei confronti della Brexit non è lo stesso per tutti i ministri. Resta inoltre aperta la questione del confine tra le due Irlande che la prima fase del negoziato terminata a dicembre non ha ancora risolto.
Se le trattative sulla nuova relazione tra la Ue e Londra partiranno a marzo, i prossimi tre mesi saranno impiegati per stabilire le regole del gioco del periodo di transizione chiesto dalla Gran Bretagna che prenderà il via il 29 marzo 2019 a mezzanotte (ora di Bruxelles), quando Londra uscirà ufficialmente dalla Ue, fino al marzo 2021. La prima tappa verrà segnata il 29 gennaio alla riunione del Consiglio affari generali dei 27 Paesi (senza Londra). I ministri dovranno adottare le nuove direttive negoziali che conterranno dettagli anche sul periodo di transizione. La strada si preannuncia per ora tutta in salita. Non a caso la stampa britannica l’ha battezzata come «la sfida più grande dai tempi della Seconda Guerra mondiale».