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 2018  gennaio 22 Lunedì calendario

La vera storia di Marchionne e dell’Fca ex Fiat

Questo Cameo vorrebbe raccontare, con leggerezza e un filo di ironia, la storytelling di Fca e del suo ceo, Sergio Marchionne. Ho sempre scritto che lui è il più grande deal maker del mondo dell’automobile. Chi è un deal maker? Un parallelo artistico: se un manager è un pittore, infatti “aggiunge” materiale sulla tela bianca, il deal maker è uno scultore, crea un’opera d’arte, “togliendo” materiale da un blocco di marmo. Marchionne è uno scultore sommo.
 
La storytelling che racconto è vera, il caso Fca originale è solo questo, tutto quello che avete letto, visto, ascoltato, in questi otto anni, mediato dalle penne più prestigiose, dai mezzibusti più tronfi, dagli economisti a la page, dagli esperti del settore, era un’altra storia, forse quella sognata, di certo non quella accaduta. L’unico che non ha mai mentito, mai, è stato Sergio Marchionne. Lui ha sempre affermato di avere un unico obiettivo: “creare valore per gli investitori”. E così ha fatto. Questa la locuzione chiave, per cui il 30 aprile 2009, attraverso la tv entrata nel giardino delle rose della Casa Bianca a mò di drone, capii il “giochino” nascosto, cosa c’era dietro alle parole di Barack Obama.
 
Tutto parte da quel 30 aprile con un colpo di scena segreto: in realtà, non era Fiat che comprava Chrysler, era il governo americano che nazionalizzava Chrysler in modo mascherato, comprando Fiat, e fingendo che questa mettesse una tecnologia (che non aveva) in luogo del cash. Infatti i quattrini (veri) li metteva solo Obama, parte come prestito, parte a fondo perduto, e sempre lui invitava i sindacati Chrysler a diventare azionisti, garantendoli sotterraneamente. In quel momento, conoscendo come funziona l’America del business, capii che l’azienda, che sarebbe nata dalla loro fusione, sarebbe stata americana, a Detroit sarebbero andati (e lo scrissi ), al momento giusto, il Quartier Generale e i cervelli: innovazione, sviluppo prodotto, marketing strategico, logistica, la ciccia. Come diceva Giovanni Falcone “segui i quattrini e lì troverai il potere”. Il primo giornale a capire il “giochino”, un anno dopo, fu il Wall Street Journal, gli ultimi a comprenderlo saranno i sindacalisti gialli (ormai parlano come Marchionne credendosi lui), i politici italiani, i due ex Sindaci di Torino, gran parte dei media e degli intellò.
 
Questo il motivo per cui divenni investitore di Fiat Chrysler, con tale schema il rischio era zero, il garante era il presidente degli Stati Uniti, l’azienda al momento giusto sarebbe andata in America, sarebbe stata quotata a Wall Street, avrebbe avuto un’incredibile rivalutazione.
Sergio Marchionne cominciò il suo lavoro di straordinario comunicatore per sfilarsi dall’Italia, a costo zero, inventandosi una serie di piani strategici che Marco Cobianchi studiò a fondo, ci scrisse un libro (“American Dream”). Poi si fece deal maker, seguendo il protocollo del caso, cioè partendo dallo scorporo dei business più lontani dal “core”. Quindi via Case New Holland e Iveco (Cnh Global), poi via Ferrari (diventa subito una star del listino), e noi investitori ogni volta ringraziavamo, ci regalava valore a piene mani.
Il Quartier generale quatto quatto finì a Detroit, le sedi legali e fiscali ad Amsterdam e a Londra. E Torino? Mi vergogno parlarne, uso le parole del mio concittadino Guido Ceronetti “È una città degradata, mi inocula tristezza”.
 
Marchionne sapeva (sa) che Fiat e Chrysler, singoli o uniti, erano follower e follower sarebbero rimasti anche dopo la sua cura, la sua unica opzione, fin dal primo giorno, era (ed è) venderla, in blocco o come spezzatino (lui si inventò, geniale, il termine “consolidare”). I big parvero subito disinteressati di Fca (pure Peugeot e i coreani? Vedremo.), i cinesi, potenzialmente allettati, sanno che Donald Trump non permetterà mai che negli Stati della ruggine o dei grandi laghi possa arrivare uno con gli occhi a mandorla a comandare.
Ora però il tempo stringe, Marchionne deve vendere, o quantomeno impostare il programma di vendita, entro il 2019, quindi l’ultima strategia praticabile è lo “spezzatino”: via Magneti Marelli, via Comau. Poi toccherà ai marchi del lusso (povero) Maserati, dello sportivo (povero) Alfa Romeo, e gli investitori ringrazieranno. Apro una parentesi su Alfa Romeo, tutti i media a esaltare il ritorno del Biscione in F!, dopo che il Drake l’aveva abbandonata (“Ho ucciso mia madre” disse allora) per fare la Ferrari. Una delle tante semi fake news, infatti torna in F1 solo il “marchio” ceduto, per puri scopi markettari per rilanciare commercialmente le nuove Alfa, a spese di una società svizzera, la Sauber, che comprerà motori Ferrari. Una genialata markettara, nulla più.
A quel punto rimarranno i marchi auto, dal top della Jeep alla 500. Stessa strategia, prima si tenta la vendita del tutto, poi “spezzatino”. E l’Italia? Ha quattro stabilimenti cacciavite, assolutamente irrilevanti nella strategia prodotto mercato complessiva (infatti i dipendenti passano dalla cassa integrazione al precariato e viceversa), difficile in questa fase ipotizzarne il destino (segnato?), e il futuro proprietario, se ci sarà.
 
Mi viene in mente la chiusa di un pezzo sulla Fiat di Gabriele Polo (Manifesto, 29 luglio 2012 nel pieno del marchionnismo dominante): un vecchio operaio Fiat (anonimo) da lui intervistato dice: “Negli anni ’70, in via Po c’era un negozio di un certo Gabbai, vendeva abiti fallati, due volte l’anno lanciava una chiassosa campagna al grido di Oplà Gabbai, vendo tutto e mi ritiro. Vendeva tutto, ma non si ritirava mai. Poi un giorno, dopo le ferie di agosto, il negozio non riaprì più, e Gabbai scomparve. Temo che la Fiat finisca così”.
PS Il vecchio operaio (anonimo) intervistato dal Manifesto nel 2012 ero io.
www.riccardoruggeri.eu