La Lettura, 21 gennaio 2018
La Guerra freddissima tra i ghiacci che si ritirano
La scena è ambientata in un lago ghiacciato ricoperto da una coltre di neve e circondato da una corona di conifere. Davanti alla telecamera ci sono due persone: una è in piedi e regge un lungo bastone appuntito, l’altra è in ginocchio e tiene tra le dita un fiammifero acceso. Appena il bastone perfora lo strato di ghiaccio, la fiammella si trasforma in una colonna di fuoco alta almeno due metri. Seguono urla e risate.
Il video si trova facilmente su YouTube ma non è stato girato per rastrellare visualizzazioni. La persona con il fiammifero si chiama Katey Walter Anthony, è professoressa alla University of Alaska di Fairbanks e se ha passato ore a far sputare fiamme a un lago ghiacciato è per dimostrare in tempo reale gli effetti del cambiamento climatico.
Il fatto che sotto quello strato di ghiaccio ci sia metano in forma gassosa è infatti legato al progressivo scioglimento del permafrost, con la conseguente liberazione di riserve di idrati di metano e clatrati, e l’esposizione di antico materiale organico alla decomposizione dei batteri. È solo una delle componenti della cosiddetta «amplificazione artica», il fenomeno per cui a fronte di un cambiamento climatico effettivo (ad esempio un aumento dei gas serra) i poli sono le regioni terrestri che tendono a riscaldarsi di più (nel caso dell’Artide, a velocità addirittura doppia rispetto al resto del pianeta). Ciò avviene soprattutto a causa della diminuzione dell’effetto albedo: il ghiaccio respinge fino al 70% dell’energia solare, l’acqua di mare solo il 6%. La drastica riduzione di ghiaccio polare avvenuta dagli anni Settanta a oggi (da 8 milioni di chilometri quadrati a 3,4), ha fatto calare la capacità di rifrazione della Terra di diverse misure.
Se questa rotta non viene invertita (e le possibilità che ciò avvenga, considerando la situazione degli accordi internazionali, non sono molte) presto la calotta polare artica si ridurrà sensibilmente, liberando nuovi terreni, risorse e rotte navali. Parliamo di un nuovo continente – distribuito sui territori di Siberia, Norvegia, Alaska, Canada e, soprattutto, Groenlandia – che sta letteralmente emergendo dai ghiacci; un continente estremamente ricco, peraltro, tanto che secondo alcune stime in questa zona sarebbe custodito il 25% delle riserve mondiali di combustibili fossili. Naturalmente, c’è già chi si sta attrezzando per lucrarci sopra.
È su questo orizzonte che si focalizza Artico. La battaglia per il Grande Nord, nuovo saggio di Marzio G. Mian – giornalista e cofondatore della società internazionale The Arctic Times Project – in uscita per Neri Pozza il 25 gennaio.
Ancora oggi, l’Artide è una sorta di fantasma: se ne parla poco e male, molti aspetti sono ancora del tutto sconosciuti, ogni tanto fa capolino sulle pagine dei giornali la classica foto dell’orso polare in equilibrio su una zattera di ghiaccio, un’immagine sensazionalistica che cattura l’attenzione per qualche minuto senza però lasciar trasparire la vera sostanza della questione. Perché è qui che il riscaldamento globale sta raccogliendo i primi dazi; ed è verso Nord che, nei prossimi decenni, il baricentro geopolitico tenderà a spostarsi.
Se questa prospettiva ci appare così balzana, se facciamo fatica a immaginarci un Polo Nord diverso dallo scenario asettico e monocromatico che abbiamo imparato a codificare, è per via di quella incapacità tipicamente umana di riconoscere l’insolito, la stessa di cui Amitav Ghosh parla nel suo saggio La grande cecità : il cambiamento climatico non ha ancora prodotto effetti macroscopici a favore di telecamera – è il ritornello più diffuso – perciò non esiste, o comunque non è così pericoloso.
Per cominciare a raccontare l’invisibile, Mian sceglie di utilizzare una sponda storica, nello specifico la spedizione di Umberto Nobile, l’ingegnere italiano che nel 1926 effettuò la prima trasvolata del Polo Nord a bordo del dirigibile Norge da lui progettato. L’inospitale distesa di ghiaccio che aveva atterrito l’equipaggio fornisce un contraltare perfetto per la condizione attuale della calotta polare: «Novant’anni dopo una nave che oltrepassa lo Stretto di Bering in estate trova un mare completamente nuovo, come emerso dal nulla (...) La rotta proibita aperta da Amundsen nel 1906, al costo di tre anni di navigazione, è più simile a un tracciato da regata».
Uno dei primi effetti della riduzione della calotta polare è di tipo commerciale: si calcola che entro il 2030 i ghiacci polari saranno così deboli da aprire la cosiddetta Transpolar Sea Route, un corridoio tra Europa e Asia che oggi è percorribile solo con potenti e costosissimi rompighiaccio. La rotta transpolare dimezzerebbe le distanze di navigazione rispetto a quella che oggi sfrutta il canale di Suez, e presenterebbe notevoli vantaggi rispetto ai passaggi a Nord-Est e Nord-Ovest poiché, estendendosi su acque internazionali, consente di evitare le giurisdizioni costiere dei vari Stati.
Esiste poi una questione energetica: lo United States Geological Survey ha stimato che in quest’area ci siano giacimenti di petrolio e gas naturale per 18 trilioni di dollari, una cifra che si avvicina al valore dell’intera economia americana. Non stupisce, dunque, apprendere che attorno a questa regione si stiano concentrando gli appetiti di diverse potenze nazionali e corporative.
Questa nuova corsa coloniale, la cosiddetta polar rush, coinvolge innanzitutto le cinque nazioni che hanno territori al di sopra del circolo polare artico – Norvegia, Stati Uniti, Canada, Russia e Groenlandia (Danimarca) – già oggi impegnate in un tenace braccio di ferro per rivendicare le sempre più docili acque artiche; ma anche altri contendenti come la Cina e l’Australia, ossessionate dalle terre rare che abbondano in questa zona. Uno dei nodi più difficili da sciogliere riguarda la Groenlandia, già oggi strattonata da una parte dalla sovrana Danimarca (che versa agli abitanti inuit dell’isola un sussidio di 500 milioni di euro annui) e dall’altra da compagnie cinesi, australiane, europee e statunitensi: la coltre di ghiaccio che ricopre gran parte dell’isola si sta ritirando a velocità record (il ghiacciaio Jakobshavn al ritmo di 45 metri al giorno), e tutti vogliono assicurarsi una fetta di ciò che ne emergerà. Nel frattempo, in attesa che i ghiacci artici si sciolgano, i governi stanno preparando una vera corsa agli armamenti. Vladimir Putin, ad esempio, negli ultimi anni s’è impegnato in un’impressionante opera di militarizzazione dell’Artide, tanto che, stando a una stima del ministero della Difesa norvegese, avrebbe a disposizione quasi 1.400 testate nucleari nella regione. La ragione è semplice: la Russia attinge l’85% del suo gas naturale da queste zone e si affida per il 40% del suo Pil ai pozzi di petrolio artici. «È tornato il pericolo di una guerra nucleare su vasta scala nell’Artico», ha osservato William Perry, Segretario alla Difesa sotto la presidenza Clinton: «La possibilità d’una catastrofe nucleare è oggi più grande che durante la Guerra fredda».
Ma mentre Stati e corporazioni si preparano all’assalto della nuova frontiera artica, per molti di coloro che vivono al di sopra del circolo polare artico la vita sta già cambiando. Nel suo libro, Mian sceglie di raccontare il riscaldamento globale intrecciando la storia dell’Artide con le piccole storie delle persone che, volenti o nolenti, ne stanno già vivendo e studiando gli effetti: come Richard Beneville, che da ballerino di Broadway alcolizzato è diventato sindaco di Nome, città dell’Alaska occidentale oggi al centro di una nuova corsa all’oro per via di un reality intitolato Bering Sea Gold; o June, che è scappata da Chicago col marito e oggi vive a Whittier, in una città-caseggiato che ricorda il condominio di J. G. Ballard; o ancora come il pecoraio Reimar Segurjonsson, la cui famiglia è l’unica tra quelle del villaggio islandese di Þórshöfn che, nonostante le offerte stratosferiche, si rifiuta di firmare per la costruzione di un gigantesco porto che trasformerebbe la baia del Finnafjord in una «nuova Rotterdam».
Insomma, al di sopra del circolo polare artico il futuro sembra molto più vicino e prevedibile: il riscaldamento globale per molti non è più una minaccia da combattere, bensì una bestia da addomesticare. Ed è questo il tragico errore che la «grande cecità» sta producendo: concentrarsi sulle opportunità a breve termine portate a galla dal cambiamento climatico, perdendo di vista le prevedibili conseguenze a lungo termine; rielaborare il paradigma coloniale per applicarlo al nuovo annunciato Eldorado, senza calcolare il danno per la fauna, la flora e le popolazioni che abitano quelle terre; prepararsi alla conquista del cosiddetto «Mediterraneo del futuro», senza rendersi conto che se siamo ancora nella condizione di poter schierare eserciti, tracciare confini, speculare, ipotizzare vie d’uscita e (si spera) cambiare rotta, è in gran parte grazie all’effetto contenitivo ed equilibrante di questa precaria coltre di ghiaccio su cui tutti si affannano a piantare bandiere.