La Lettura, 21 gennaio 2018
L’Antartico s’allarga e si stringe. È la coscienza della Terra
Memoria e insieme potenziale futuro, l’Antartico è un enorme, originale e formidabile dispositivo la cui comprensione richiede l’abbandono dei modelli che fin qui hanno governato la nostra conoscenza della Terra, tutti impostati sulla logica dell’opposizione binaria, sull’idea che ogni differenza sia riducibile a dicotomia. Si prenda ad esempio il buco dell’ozono, non a caso scoperto nel 1977 (ma rivelato solo nel 1985) al di sopra della regione antartica orientale. Si chiedeva anni fa Bruno Latour: è un fenomeno naturale o una manifestazione culturale? Di fatto la questione risulta indecidibile, nel senso che qualsiasi risposta sarebbe parziale tranne una: ambedue le cose. Ma andiamo per ordine.
Intanto oggi l’Antartico significa prima d’altro memoria. Almeno così a noi esso appare, una sorta di gigantesco archivio. La coltre di ghiaccio che lo ricopre (estesa quasi quanto la totalità degli oltre 14 milioni di chilometri quadrati di cui il continente si compone) funziona da gigantesco deposito di tracce, di testimonianze di quel che da migliaia d’anni è stata la storia del pianeta: antichi climi e atmosfere, primordiali eruzioni vulcaniche, bombardamenti di particelle cosmiche, frammenti di comete e meteoriti, di satelliti come la Luna o di altri pianeti come Marte costellano più o meno in profondità la sua distesa, mentre gli strati superiori rivelano impietosamente, fissati nel gelo, i segni recenti dell’inquinamento industriale originato dal resto del mondo, e quel che rimane dello scoppio degli ordigni nucleari. Tutte cose che hanno interessato e interessano l’intera faccia della Terra, ma che solo qui appaiono ancora visibili ed evidenti, consegnati alla testimonianza meglio che nel molto più contaminato Artico.
Senza il gelido mantello, che può arrivare anche a 4.000 metri di spessore, la forma dell’Antartico sarebbe molto più bassa e diversa da quella odierna: a oriente della linea montuosa che l’attraversa in verticale le dimensioni sarebbero molto minori, e a occidente un arcipelago di isole accidentate apparirebbe al posto della continua odierna distesa.
All’inizio, quando a qualcuno venne in mente di rappresentare per la prima volta tutta la Terra in termini spaziali, cioè simmetrici e geometrici, il nome dell’Antartico, dei dintorni del Polo Sud, era Agysimba: uno di quei Paesi che nessuno aveva mai visto e che «solamente si suppongono» come nelle sue lezioni di geografia ancora ripeteva Kant, ma che di necessità doveva esistere, per bilanciare in fondo all’emisfero meridionale il frontone di terre emerse esteso a ridosso del 60° parallelo in quello settentrionale. Nella sua Storia naturale il conte di Buffon avanzava l’ipotesi che tale Paese fosse vasto quanto l’Europa, l’Asia e l’Africa messe insieme – in realtà la sua area equivale all’incirca a quella dell’Europa e degli Stati Uniti. Un quarto di secolo dopo, nel 1773, James Cook concludeva invece, dopo essersi spinto oltre il 71° parallelo sud senza trovare nulla, che la Terra Australis (come in epoca moderna veniva chiamata) non esisteva affatto, almeno nelle dimensioni che le si assegnavano. Proprio a proposito dell’Antartico si consumava così l’ultimo atto della secolare contesa sui lineamenti della faccia terrestre, sorta alla fine del Quattrocento tra i marinai restii a far dipendere la geografia dalle congetture e i sapienti «pigri e superbi che, nel comodo del loro studio, filosofeggiavano a perdita d’occhio sul mondo e i suoi abitanti». Così nel 1771, al ritorno dal suo viaggio intorno al globo, scriveva con qualche esasperazione Bougainville.
Vinsero i marinai e furono loro, con i racconti sull’abbondanza di foche e balene, ad attirare sempre più a sud i cacciatori, finché nel 1820 tre imbarcazioni, quasi in contemporanea, avvistarono la gigantesca gelida distesa: un equipaggio russo, uno inglese e uno americano. Da allora in poi l’Antartico si è opposto non soltanto all’Artico, ma a tutta la storia oltre che alla geografia del resto del pianeta, costringendo a rimettere in discussione, con i suoi paradossi da new entry, molte pratiche e concetti dominanti: quelli sui quali l’intera modernità andava completando la propria visione del mondo e la propria costruzione.
La spartizione della gran parte della Terra tra gli Stati nazionali, culminata nel corso dell’Otto e Novecento, riguarda l’Antartico in maniera incompiuta e in fondo ancora da decidersi. Il rigore inusitato del clima gioca di certo al riguardo la sua parte. L’Antartico, dove qualche decina di milioni di anni fa fiorivano grandi foreste di conifere, è adesso la regione più fredda del globo, un immane deserto che è al tempo stesso il più grande serbatoio idrico che esista, composto da più dei nove decimi dell’acqua dolce ghiacciata del mondo. Nel mese più caldo, dicembre, le punte massime di temperatura superano di rado i 20 gradi sotto zero, mentre d’inverno le minime arrivano a sfiorare i 90, le più basse mai registrate in assoluto. Questo perché, mentre l’Artico è un mare circondato dalla terra, l’Antartico è una terra circondata dal mare, e perciò beneficia meno dell’effetto mitigatore di quest’ultimo. Tanto più che, a causa del congelamento invernale delle acque circostanti, in cui i tre grandi oceani convergono, la superficie del continente raddoppia ogni sei mesi per poi tornare a ritrarsi secondo un ritmo regolare, allontanando in tal modo per metà dell’anno di migliaia di chilometri dal cuore dell’altipiano polare centrale la fonte di calore liquida.
A ciò si aggiunga l’incessante soffio di terribili venti freddi, la velocità delle cui raffiche, affini per violenza a quelle dei cicloni tropicali, arrivano a superare i 300 chilometri all’ora. La superficie della regione antartica è in tal modo non soltanto di continuo scossa, ma prima ancora in permanente pulsazione, agitata da perenni processi naturali che impediscono la minimale stabilità del suolo e delle relazioni tra uomo e ambiente che altrove hanno costituito la premessa necessaria dell’organizzazione statale basata appunto sulla staticità, sull’idea – nell’Antartico inconcepibile – che il territorio sia qualcosa di tendenzialmente fisso e immobile. Quell’idea che appunto è servita da fondamento per la materiale – prima ancora che ideale – costituzione dello Stato moderno, entità che in Antartide non esiste in senso proprio, sebbene anche qui abbia allungato in qualche misura la sua proiezione, e ancora non rinunci del tutto a imporsi. «Inospitalità» è il termine con cui di solito tale tensione viene tradotta, ascrivendo in tal modo al dominio naturale quel che invece è il riflesso di un complesso di decisioni politiche. Un’operazione alquanto agevole, dal momento che le stesse rivendicazioni territoriali, passate e future, sul continente antartico sono da tempo letteralmente «congelate» in attesa di sviluppi.
Il sistema d’amministrazione internazionale che presiede al governo dell’Antartide è imperniato sul Trattato Antartico, applicato su tutta l’area compresa tra il Polo Sud e il sessantesimo parallelo di latitudine, firmato a Washington ed entrato in vigore nel 1961 (dunque al culmine della Guerra fredda) da una dozzina di parti contraenti: gli Stati Uniti, l’Unione Sovietica e gli Stati che avevano espresso pretese di sovranità (Argentina, Australia, Cile, Francia, Norvegia, Nuova Zelanda, Regno Unito) cui s’aggiunsero tre Paesi tempestivamente proclamatisi portatori d’interesse come il Giappone, il Sudafrica e il Belgio. La filosofia del Trattato si fonda sul compromesso tra gli interessi delle singole nazioni contraenti, nel frattempo divenute una cinquantina, e del soggetto collettivo che chiamiamo umanità, che dai Romantici in poi include tutti coloro che sono esistiti, che esistono e che esisteranno. E si articola su tre princìpi di fondo, oltre la messa in parentesi di tutte le pretese rivendicative, che rendono l’Antartide una «riserva naturale dedicata alla pace e alla ricerca»: il divieto di ogni attività militare e connessa all’uso dell’energia nucleare; la promozione della ricerca scientifica attraverso la cooperazione e gli scambi internazionali; un approccio ecosistemico mirato alla conservazione di tutte le condizioni ambientali che permettono l’esistenza delle specie. Inclusa quella umana.
A questo punto dalla memoria si passa al futuro, che non riguarda solo il fatto che l’agenzia spaziale statunitense e quella europea hanno eletto l’Antartico a campo base per la conquista dei mondi lontani, per via delle condizioni ambientali favorevoli allo studio dei meccanismi d’adattamento a situazioni estreme. Le ultime notizie informano che il buco dell’ozono si va rimarginando. Ma allo stesso tempo si apprende che la temperatura antartica conosce negli ultimi anni inusuali aumenti, al punto che sui margini settentrionali della banchisa al posto della neve compare la pioggia, e i ghiacci, fino a qualche anno fa relativamente compatti e saldi, si vanno staccando e sciogliendo. Se la calotta sparisse, il livello degli oceani aumenterebbe di 50 metri, e basterebbe un solo metro d’aumento per mettere a repentaglio la vita di decine di milioni di persone, e le stesse New York e Londra. Forse abbiamo capito. Due secoli dopo Cristo Tolomeo, il primo a rappresentare tutto il globo come un unico spazio, scriveva che la Terra è una testa. L’Antartico allora, che almeno per il momento produce soltanto nuove informazioni che integra con la memoria del pianeta in funzione del futuro terrestre, è oggi la sua mente. Anzi la sua coscienza.