La Lettura, 21 gennaio 2018
Niente libri in camera da letto
Se in una città sconosciuta conosci un libraio, non sarai mai solo.
Da che cosa comincia la vita? Dal primo libro che compri, tu solo, e vagabondando. Questi sono ricordi nitidi: ed ecco la prima infanzia che si squama e a subentrargli una incespicante adolescenza e, per me, un borsellino dove una tantum entravano non più di cinque, massimo dieci lire. In un vicino giardino c’erano due bancarelle e immancabilmente mi fermavo. Allora sfogliare libri era negato in Italia. Il proprietario ti sorvegliava con il mento sulla spalla.
Là, comprai gli Ossi di seppia e le Occasioni, veri ossi ma istruttivi, nelle edizioni Einaudi; il Sentimento del tempo e L’allegria e, appena uscì, Il Dolore e, fondamentale, lo Spinoza di Giuseppe Rensi, che all’incirca nello stesso periodo comprò a Catania Leonardo Sciascia. Comprai a quell’epoca anche Madame Bovary nella Romantica giallina di Mondadori, tradotto da Diego Valeri, e nella stessa collana, La missione teatrale di Guglielmo Meister; l’ Ur-Meister goethiani.
Finché non aprì a Torino, nel 1952, una Librairie Française, al primo piano del n. 2 di via Carlo Alberto. Ti aprivano un conto che era fantastico! Di fatto era a vita; si è chiuso da sé (forse), non prima di una sessantina d’anni.
Le letture più appassionate del 1945 (passaggio dal giro di vite tedesco-fascista alla libertà americana, dagli spari di coprifuoco al sollievo delle camminate notturne e del liscio timido da Castellino Danze) furono principalmente queste, e a poco a poco tra filosofia e grande narrativa, la vita si delineò un agglutinante enigma costrittore.
Un amico poverissimo che aveva una bancarella sotto i portici, col quale non si parlava che di libri, Luciano Tricerri, mi lasciava con una sempre uguale raccomandazione: – Leggi Céline, lì c’è tutto! Parlava del Voyage, naturalmente, non certo dei pamphlets, innominabili antisemiti! Un giorno intravidi il Voyage in qualche altro luogo eccentrico, era proprio il Voyage, nelle edizioni di Denoël et Steele, oggi difficilmente ritrovabile, del 1934 (la prima edizione è appena di due anni prima). Lo lessi in originale, senza conoscere troppo quella lingua semiargotica smagliata su tutte le miserie e i dolori umani, brutalmente e vittoriosamente poetica che bagnò la mia piccola libreria di allora con ruggiti di tigre ferita.
Finalmente nel 1950, andai per la prima volta a Parigi, in cerca di un Villon e di un Fleurs du Mal d’occasione. All’amico Tricerri annunciai trionfalmente che avevo trovato il Voyage au bout de la nuit. Mai sono stato invogliato di comprare un Giallo Mondadori. Li detestavo. Trame, stampa, tutto. Li trovavi a pile nei gabinetti. A volte c’erano anche Ponson du Terrail, Petrosino, Arsenio Lupin, disgusti sopra disgusti...
Quanto bene mi abbiano dato i libri non saprei dire. Ogni volta una nuova scoperta mi svelava l’incomprensibilità del mondo e del suo inidentificabile male.
Un libro inutile è quello che non aiuta a capire il tragico della vita, e non la contagia. Posso dire che nella mia libreria i libri che non contengono il senso del tragico sono pochissimi. Ma una esperta di feng shui mi disse di evitare di mettere troppi libri e foto e altro nella camera da letto, e spero che questa preziosa massima sia seguita dai miei lettori. In camera evitiamo più che possiamo immagini e libri e vivremo e sogneremo assai meglio.
Un tragico per me inafferrabile è quello di Woyzeck. Ci è pervenuto in uno stato tale di confusione di carte da far credere un’apparizione quel che sulla scena accade, ed è centrale il monologo del «Coltello nello stagno». L’uomo è solo, cerca il suo coltello, che ha ucciso la sposa fedifraga, Marie (la fase dell’acquisto non è dimenticata dall’autore) perché tutto è normale, cronaca minuta, vissuta sui giornali insieme col tutto: è fabula infinita nuda di sfingi. Avevo più versioni italiane, tra cui quelle di Claudio Magris, ideale per il teatro, e tedesche, di Woyzeck, e delle altre di Büchner, di cui c’è, compiuta, la sola Morte di Danton.
L’ultima messinscena che vidi, di Théâtre de l’Est Parisien, credo nel ’98, con musiche indovinatissime di un compositore greco, non mi pare trascurasse nessun frammento.
Ma il lungo periodo di una biblioteca senza nulla di passivo, di acquistato meccanicamente, dura finché dura il rapporto coi librai, e lo puoi avere soltanto nelle città. A Torino, un libraio veramente originale era Ilario Murgarita, milite tra le file combattenti in Spagna, dove era nella Cgt, anche lui sotto i portici, anticomunista feroce, ti chiamava di lontano quando ti vedeva arrivare: – Salve cittadino! (un saluto della Repubblica del 1772 che mi piacerebbe rivivesse, senza obbligo tra gli italofoni) – È arrivato il nuovo numero del «Contrat Social» ! Melodioso annuncio! Ilario solo la vendeva, a Torino. Quella rivista la faceva un greco, Kostas Papayoannou, un ex trotzkista che viveva a Parigi e insegnava storia contemporanea in una Università privata. Volevo proporgli come allieva mia figlia, che di storia contemporanea non era avidissima. Un giorno andammo da lui che stava, mi pare, al Quinzième (o al Seizième) e lo trovammo che beveva... Vino rosso ma era un inquietante segnale... – Mi hanno tolto un pezzo di polmone, annunziò simulando indifferenza. Gli lessi qualche verso di quel che Durrell non chiama che il Vecchio Poeta (Kavafis), in un greco passabile, ma il suo distrarsi dall’idea fissa e dal bere durò pochissimo. Il «Contrat Social» cessò le pubblicazioni. Quando tornai c’era nel salotto una cassettina sigillata, sopra il caminetto. – Farò come mi ha detto, disse la moglie, seppellirò Kostas nel mare greco.