La Lettura, 21 gennaio 2018
I 100 musei più bizzarri
Leonia è una città che abbandona i resti della giornata precedente mescolando il piacere per l’acquisizione di «cose nuove e diverse» con la voglia di espellerle. Mentre, intorno, in una «fortezza di rimasugli», si accumulano cataste di immondizia. Le nostre città tendono sempre più a somigliare alla Leonia inventata da Calvino ne Le città invisibili. Sociologi attenti a interpretare queste dinamiche hanno ricordato come, nel tempo della transitorietà globale, nulla sia destinato a durare. Niente è indistruttibile. Si crea per distruggere. Tutto ha una scadenza. Eppure, da più parti si avverte la necessità di reagire a questa damnatio memoriae ponendosi nella linea di un modello lontano. Le Wunderkammer allestite nel Cinquecento e nel Seicento. Prodigiose sintesi tra conoscenza scientifica e piacere estetico. Prefigurazione delle installazioni contemporanee. Esito di un’affascinante utopia: provare a riunire naturalia et mirabilia, scarabattole e manufatti modellati con sapienza artigianale, per assemblare universi in miniatura capaci di destare stupore, meraviglia. Cabinets de curiosités, che rivelano la volontà di alcuni nobili di catalogare e di mostrare raccolte di oggetti eccentrici e di quadri.
In maniera imprevista, le «camere delle meraviglie» stanno tornando d’attualità. È un fenomeno internazionale. Un po’ ovunque proliferano micromusei bizzarri che si propongono di archiviare di tutto: profilattici, sapone, fogne, carte da parati, pane, cetrioli, trappole per topi, cavatappi, tarocchi, feci, ombrelli, attrezzi per il sesso, lattine di birra, mummie, carri funebri...
Questi anomali mini-musei sembrano muovere da ragioni quasi filosofiche. Cosa resterà del nostro mondo e delle nostre invenzioni? Si pensi a quel che è accaduto per le civiltà arcaiche. Molti documenti sono svaniti nel nulla. Sono rimasti soprattutto attrezzi e suppellettili. Relitti che ci parlano di culture e di civiltà scomparse. È possibile che, una volta distrutte le nostre città e le nostre opere d’arte, resteranno solo poche e arrugginite tracce: elettrodomestici, resti di mobili, di materiali plastici. Frammenti di un’archeologia del futuro. Ecco: i musei dell’insolito hanno la segreta ambizione di salvare e di conservare quel che saremmo portati a usare e a gettare via, rendendo «interessanti» alcune cose di uso quotidiano. Spesso sorgono in aree distanti dai circuiti turistici più battuti. Poco documentati dal sistema dei media, per niente sostenuti dalle istituzioni nazionali e locali, impegnati a sottrarsi a una logica di tipo assistenzialistico, indifferenti alle regole del marketing, incapaci (per ragioni economiche) di avviare campagne comunicative, non adeguatamente attrezzati dal punto di vista museografico, queste Wunderkammer autarchiche sono legate alla storia dei contesti in cui si trovano e, insieme, aspirano a determinare il rilancio di quegli stessi contesti. Pur senza mezzi finanziari e con una certa ingenuità, provano a mettere in scena originali forme di storytelling in cui mescolano arte, artigianato, antiquariato. E filosofia da «mercato delle pulci».
Questi cabinet nascono dal basso, per iniziativa di volontari o associazioni culturali, di registi eruditi e appassionati che tendono ad assecondare un ossessivo (forse folle) slancio enciclopedico per dare voce a un originario bisogno di possesso. Inconsapevoli eredi di un sapere sregolato, pulsionale e desiderante come quello del collezionismo, si dedicano a raccogliere cose uniche e rare. Guidati da irrefrenabili curiosità, da passioni e da nevrosi, cercano altri materiali. Vanno a caccia, potremmo dire con le parole di Breton nel romanzo Nadja, «di quegli oggetti che non si trovavano altrove, fuori moda, frammentari, inutilizzabili, quasi incomprensibili, perversi». Si tratta di oggetti che hanno un valore non commerciale ma simbolico, combinati in un ordine apparente o in un disordine relativo. Si compongono così esperienze che non possono mai dirsi risolte. Costruzioni condannate a rimanere incompiute. Piccole imprese che sembrano porsi tra territori non contigui: il bazar e il museo. Da un lato, l’esigenza di radunare oggetti eterogenei in una tassonomia fluttuante e in un bric-à-brac di scarti, senza attenersi a giudizi critici condivisi o a tradizionali divisioni tra arti maggiori e arti minori. Dall’altro lato, la volontà di ricondurre episodi vari all’interno di racconti visivi i cui autori si comportano come rigattieri intenti a raccogliere prodotti scelti in base alla loro singolarità, alla loro genuinità, alla loro carica affettiva. Baudrillard: «La prosa quotidiana diventa poesia, discorso incosciente».