La Lettura, 21 gennaio 2018
Ežov, il carnefice usa e getta strumento e vittima di Stalin
Uno storico americano racconta che Stalin, nel 1942, ricevette un grande regista, Sergej Ejzenštejn, e un grande attore, Nikolaj Cerkasov, che avevano appena terminato la prima parte di un film sullo zar Ivan il Terribile. Secondo le memorie di Cerkasov, il meraviglioso georgiano (come fu chiamato da Lenin) cominciò a riflettere sulla storia russa. Disse che Ivan il Terribile era stato un grande sovrano progressista, deciso a battersi per il bene e l’unità del Paese. Ma aggiunse che anche Ivan, purtroppo, non era stato «perfetto». Non aveva liquidato un numero sufficiente di oppositori (nei dieci anni della repressione le vittime furono «soltanto» quattromila). Aveva lasciato sopravvivere parecchi boiari che si sarebbero conteso il potere dopo la sua morte e avrebbero aperto le porte della Russia alle invasioni straniere.
Vi era in quelle parole un evidente autocompiacimento. Stalin infatti non aveva commesso lo stesso errore. In una trentina di mesi, pochi anni prima, il regime aveva fucilato più di 700 mila persone e ne aveva inviate altrettante in campi di detenzione dove il freddo, la fame e i lavori forzati avevano fatto a gara con i plotoni d’esecuzione per realizzare una delle più grandi «purghe» della storia umana.
Non vi sarebbe riuscito, tuttavia, se non avesse potuto contare sul migliore dei collaboratori possibili. Era un bolscevico della prima ora che aveva fatto soltanto studi elementari, era stato apprendista di sartoria ed elettrotecnico, aveva vestito l’uniforme dell’esercito zarista sino al 1917 e combattuto nell’Armata rossa durante la guerra civile. Ma aveva anche grandi capacità organizzative e aveva fatto una brillante carriera politica, sino a diventare, nel 1934, membro del Comitato centrale del Partito comunista dell’Urss. Si chiamava Nikolaj Ežov ed è passato alla storia con il discutibile merito di avere dato il suo nome a un intero periodo di storia sovietica, detto appunto Ežovscina.
Grazie all’apertura degli archivi di Mosca uno studioso russo, Aleksej Pavljukov, ne ha scrupolosamente ricostruito la vita e le gesta in una lunga biografia intitolata Le fonctionnaire de la Grande Terreur: Nikolaï Iejov (il nome del protagonista secondo la grafia francese), che è stata pubblicata in Francia nel 2017 dalle Éditions Gallimard.
Stalin era convinto di essere circondato da concorrenti ambiziosi – Grigorij Zinovev, Lev Trotsky, Nikolaj Bukharin – pronti a cospirare nell’ombra, anche con l’aiuto di potenze straniere, e che ciascuno di essi potesse contare su un grande seguito di complici, nascosti nella enorme macchina del partito. I venti di guerra che soffiavano nella seconda metà degli anni Trenta lo convinsero che i suoi nemici avrebbero approfittato di un conflitto per colpirlo alle spalle. Giustificò le sue ossessioni con la teoria del «nemico permanente»: in un rapporto al plenum del Comitato centrale sostenne che i successi del regime, anziché avvicinare la fine della lotta di classe, l’avrebbero resa ancora più aspra e violenta. Quanto più il regime avesse realizzato i suoi obiettivi, tanto più i suoi nemici avrebbero moltiplicato gli sforzi per abbatterlo.
Il disegno di Stalin prese corpo nel 1934, quando il primo segretario del Partito comunista di Leningrado, Sergej Kirov, fu ucciso da un giovane comunista nello Smolnyi (il «collegio zarista delle fanciulle», dove Lenin, nel novembre 1917, aveva preso la parola di fronte al Congresso panrusso dei soviet per annunciare la «prima rivoluzione socialista mondiale»). Non sapremo mai, probabilmente, quali fossero le reali motivazioni dell’assassino (qualcuno sospettò che il mandante fosse Stalin, ansioso di eliminare un potenziale concorrente). Sappiamo tuttavia che da quel momento il leader sovietico non si limitò a promuovere indagini. Il suo obiettivo era la sistematica eliminazione di tutti i suoi nemici, reali o presunti. Anche Lenin nel 1918 era stato protagonista di una prima ondata di Terrore. Ma fra quello di Lenin e quello di Stalin, corre una importante differenza. Mentre il primo voleva eliminare chi avrebbe, a suo giudizio, ostacolato e sabotato il cammino dello Stato rivoluzionario, Stalin voleva sbarazzarsi di tutti coloro che, dall’interno del partito, avrebbero cercato di strappargli il potere. Mentre le vittime della Ceka di Lenin appartenevano alla nobiltà, alla borghesia, al clero e all’immenso mondo rurale della Russia zarista, le vittime di Stalin furono i suoi compagni di partito.
Al ministero degli Interni e alla polizia segreta ordinò di cercare i colpevoli fra gli amici di Zinoviev e Trotsky. E quando constatò che molti cekisti non condividevano i suoi sospetti, si servì sempre più frequentemente di Ežov, che nel settembre del 1936 sottopose al Politburo una risoluzione in cui era scritto, tra l’altro: «Occorre farla finita con le canaglie trotskiste-zinovieviste». Scrisse anche che sarebbe stato necessario «fucilare non meno di mille persone e condannare gli altri a otto o dieci anni di detenzione». Stalin approvò il testo, ma cancellò le cifre. Non voleva legarsi le mani fissando un numero che sarebbe stato, come sappiamo, immensamente superiore.
Per assecondare la sua strategia, Ežov, nella sua veste di ministro degli Interni, costruì una macchina perfetta in cui le vittime producevano vittime. Gli interrogatori, a cui spesso partecipava personalmente, erano sedute di tortura. Picchiati a sangue dai loro aguzzini, gli accusati cedevano, confessavano reati che non avevano commesso e cercavano di salvare la propria vita, o di regolare vecchi conti, trascinando con sé tutti coloro che Ežov voleva coinvolgere. Ogni confessione generava altri imputati e altre confessioni.
Sospettoso, diffidente e implacabilmente logico, Stalin non si limitò a eliminare i «nemici». Per cancellare le tracce più compromettenti di questo assassinio di massa e stroncare sul nascere le ambizioni di chi avrebbe potuto aspirare al potere, eliminò anche coloro che avevano obbedito ai suoi ordini, fra cui lo stesso ministro degli Interni. Come tutti quelli che lo avevano preceduto sul banco degli imputati, anche Ežov finì per confessare ciò che non aveva fatto. Le sue ultime parole nell’aula del tribunale furono: «Una sola cosa vi chiedo: fucilatemi tranquillamente senza farmi soffrire. Dite a Stalin che muoio con il suo nome sulle labbra». Evidentemente il comunismo non fu soltanto un progetto politico. Fu anche una fede religiosa e, come in tutte le religioni, cominciò a morire solo quando i fedeli smisero di credere.
Come scrive Pavljukov, nel «caso Ežov» vi è anche un interessante poscritto. Nel 1995, la figlia adottiva del ministro, Natalia Kajutina, indirizzò una lettera alla procura generale della Federazione russa per chiedere la riabilitazione del padre. Le confessioni gli erano state strappate con la tortura e nessuna delle accuse per cui era stato condannato aveva il benché minimo fondamento. Dopo avere lungamente esaminato tutti gli aspetti della questione, i magistrati della procura mandarono gli atti al Collegio militare della Corte Suprema dove i giudici ricordarono anzitutto che la legge sulla riabilitazione serviva a indennizzare moralmente le vittime della repressione. Ežov, pur essendo vittima, era stato anche e soprattutto persecutore e non poteva quindi essere riabilitato. Sotto un profilo strettamente giuridico la decisione del collegio poteva essere contestata. Sotto un profilo storico e morale era impeccabile.