La Lettura, 21 gennaio 2018
Ma di che cose stiamo parlando?
Elise Thiébaut ha scritto un libro su un argomento di cui non si parla, a cui al massimo si allude («le cose») pur essendo parte della vita quotidiana di tutte le donne: le mestruazioni. Poiché l’argomento è tabù, la quantità di informazioni, aneddoti, passaggi storici, miti, credenze, pregiudizi, errori e citazioni, è gigantesca e rende per questo motivo imperdibile la lettura. Thiébaut cerca di informare e ragionare scegliendo la strada più sensata: parte dall’esperienza personale, dal rapporto che ha avuto lei con il sangue mestruale dalla pubertà alla menopausa, quarant’anni di presenza del ciclo e circa 2.400 giorni effettivi di perdite. Da lì si muove per cercare di penetrare quanto più è possibile dentro la corazza del tabù, cioè il rapporto tra una donna e le cose, le regole, il marchese, l’indisposizione, il mal di pancia (e cento altri modi per indicare le mestruazioni).
La storia di una donna e del suo rapporto con il ciclo mestruale è la storia di tutte le donne, con differenze di disagi e dolore, ma nessuna differenza nella reazione e nell’accoglienza del mondo circostante: che ha reagito e continua a reagire con fastidio, pudore, esigenza del sottinteso, necessità di svicolare – insomma: il tabù che cerca di resistere. Per tutti. Basti osservare il rapporto furtivo delle donne con assorbenti e tamponi; quando dicono: vado un momento in bagno, poi infilano la mano nella borsa e ne escono senza nulla, solo con il pugno chiuso intorno a chissà cosa. Loro sanno che noi sappiamo, noi sappiamo che loro sanno che noi sappiamo, ma la convenzione vuole che si agisca così. E poi «niente, un po’ di mal di pancia» allusivo, e l’imbarazzo nel dirsi, nel momento in cui si è pronti a fare sesso, che «insomma, sto un po’ così, hai capito?» – poi ci sono quei secondi in cui bisogna decidere se andare avanti o fermarsi.
Il mestruo è l’opera di evacuazione dell’ovulo non fecondato. Le donne in quei giorni (e nei precedenti!) vengono indicate come spiacevoli, instabili, nervose, insopportabili – nell’età contemporanea, perché prima era molto peggio. Per fare pochi esempi moderni, si è pensato a lungo che durante il ciclo le donne facessero appassire fiori, o impazzire la maionese. Ed era loro impedito il lavoro di magistrato perché in determinati periodi erano più instabili. E così via, nei secoli e nei continenti, nelle abitudini e nel folklore, le mestruazioni sono state quasi sempre considerate una menomazione fisica, mentale e – appunto – capace di condizionare negativamente anche il mondo intorno.
Questo è il mio sangue (Einaudi) spinge a essere espliciti, a trattare una questione familiare e quotidiana come tale, a chiedere un assorbente come si chiede un cerotto. Negli ultimi anni si sta combattendo una vera e propria battaglia contro la vergogna delle mestruazioni; molte artiste hanno lavorato sul tema, questo libro arriva sulla scia di quella battaglia. E racconta atti esemplari come quello di Kiran Gandhi che nel 2015 ha deciso di correre la maratona di Londra il primo giorno del ciclo e senza tampone interno né assorbente. Le fotografie la ritraggono al traguardo trionfante e con la tuta sporca di sangue. I 42 chilometri della maratona servono a dimostrare una volta per tutte che una donna durante il ciclo non ha nessuna limitazione.
Per tornare poi a quella esitazione davanti al sesso, veniamo a conoscenza che fare l’amore durante il ciclo, o praticare altre azioni di avvicinamento tra la testa e il sangue (non so se si capisce, ma era un modo per poter riuscire a scrivere di questa pratica sul Corriere) pare dia i seguenti vantaggi, grazie alle cellule staminali che il sangue mestruale contiene: malattie cardiovascolari, diabete, artrosi e cancro. Nel libro si dice anche che quindi è una strada buona per raggiungere l’immortalità. E su questo però sono più scettico.
Questo è il mio sangue è un racconto che ha un tono a volte spiritoso e a volte sarcastico, caustico, come se bisognasse per forza essere un po’ sprezzanti verso il lettore, preferibilmente maschio, che ha pregiudizi e tabù. E che però, anche se non ci si rivolge a lui direttamente, il lettore ogni tanto si sente un po’ scemo (e il fatto che lo sia realmente, non migliora la situazione). Credo che questo tono – in un libro così pieno di delucidazioni e ripristino di verità scientifiche e anche alla ricerca di un atteggiamento sensato – non fosse necessario. Ma quello che sto dicendo può non essere oggettivo, bensì impermalosito, perché mi sento direttamente colpito dal tono. Perché è bene a questo punto della recensione intervenire come categoria (genere): avrà pure un senso che un maschio recensisca un libro sulle mestruazioni; ma proprio perché questo libro è rivolto a me e a quelli come me. Che siamo un po’ infastiditi se non addirittura schifati dalle mestruazioni, che sentiamo odore di mestruazioni a chilometri di distanza, che quando si tratta di far l’amore durante cerchiamo molte scuse non solo per non farlo ma anche possibilmente per non vedersi proprio e che rinunciamo più che volentieri alle cellule staminali. Che prima dicevamo a una donna nervosa: ma che hai le mestruazioni?, ma ti stanno per venire? – e adesso abbiamo imparato che non si può dire. Ma lo pensiamo. Perché l’unica cosa che abbiamo imparato crescendo è che bisogna gestire i pensieri e le parole, ma non abbiamo imparato a sviluppare il pensiero in modo sensato o almeno diverso dal solito. E intanto la Thiébaut dimostra l’estrema fragilità anche del pregiudizio sulla sindrome premestruale, citando contro uno studio che dimostra che la crisi finanziaria del 2008 è dovuta soprattutto ai picchi di testosterone dei trader.
Il problema rimane: sono ormai sicuro che questo libro mi abbia aperto la mente su moltissime cose, ma anche che il pregiudizio è una cosa che tiene saldi e che dà senso alla propria esistenza, soprattutto quando ci si sente parte di una generazione che ormai si è compiuta in qualche modo, ha ancora da vivere ma in qualche modo si è compiuta. E quindi saprò di sicuro comportarmi meglio, fare una buona impressione; ma i miei pensieri si sposteranno di quasi niente. Perché i maschi sono un po’ come quegli intellettuali rivoluzionari che hanno passato tutta la vita a combattere lo Stato, a essere brutali con lo Stato, a denunciare; e poi all’improvviso, tardi, in vecchiaia, si sono trovati davanti alla possibilità di diventare loro stessi lo Stato e che di conseguenza era giunto il momento di mettere in atto quelle idee rivoluzionarie coltivate per tutta la vita. E a quel punto hanno intuito che altri sarebbero diventati rivoluzionari al loro posto, che mettere in atto le idee le avrebbe in ogni caso ridimensionate; e soprattutto che la vita che avevano vissuto, sarebbe cambiata proprio nel segmento finale, e questo lo ritenevano insopportabile; e a quel punto hanno scelto di rimanere rivoluzionari, spostandosi ancora più in là perché così tutta la loro vita sarebbe andata in un unico senso e sarebbe stata definita come desideravano: coerente.