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 2018  gennaio 20 Sabato calendario

Napoli. Da Posillipo alla Senna l’avventura fin de siècle di De Nittis, Gemito & C.

Siamo portati a stuccare il rapporto tra la Napoli folklorica e pittorica e la Francia cosmopolita e riverberante, incorniciandolo tutto entro il periodo più smagliante. Che va tra Impressionismo e Belle Époque, e che riluce dei lustri elettrici della Ville Lumière. Forse perché sedotti dagli intrecci franco-vernacolari dei divertenti diari impressionistici di De Nittis, che riecheggiano i pigolii mondani del suo salotto parigino, tra le polpette ed i vezzi di donna di Leontine, ed i motti di spirito del padrone di casa. Che però ospita personaggi del livello di Degas, Daubigny, dei fratelli de Gouncourt, ma anche Zandomeneghi, Diego Martelli, il gallerista Goupil. Eppure il rapporto tra Napoli e Parigi (e questo la mostra curata da due esperti di lungo corso come Luisa Martorelli e Frernando Mazzoca lo documenta con dovizia e dottrina) rapporto tra l’altro non soltanto unilaterale, ha una data molto, molto più precoce. Non soltanto quella del primo viaggio, formativo e quasi adolescente, dei Morelli, Altamura e Filippo Palizzi, all’epocale Esposizione Universale del 1855 di Parigi. Ma molto prima, grazie al soggiorno del vedutista Smargiassi, nella capitale lamartininiana e fresco-romantica (siamo nel precoce 1832. Hugo, per dire, ha appena trent’anni). E poi con il più prolungato soggiorno stanziale di uno dei tanti fratelli Palizzi, Giuseppe, che dialoga alla pari con il naturalismo paesaggistico di Corot e di Courbet, entrando nella foresta di Fontainebleau, ed adeguandosi ai canoni tenebrosi e luminescenti della scuola di Barbizon. Lo viene a trovare anche il fratello Filippo, che curiosamente è presente pure a Capodimonte, nella mostra Carta Bianca, prescelto da Laura Bossi, signora Jean Clair, per la sua passione animalista. Che esplode nell’epico telero dell’Arca di Noè, gremita di ritratti di animali accoppiati. Certo, affiancato da «piccoli maestri» che sono spesso delle vere rivelazioni e cioè artisti sapienti, come Di Chirico, Cammarano, o il Tofano dell’estenuato Enfin... Seuls! (con gli sposi viscontiani finalmente lasciati soli dalla glassa appiccicosa di parentaglia, Kentie e querimonie) De Nittis resta uno dei protagonisti assoluti della mostra.
Non soltanto per i vaporosi squarci mondani e para-degassiani, tutti ombrellini, binocoli & tifo rallentato alle corse dei cavalli, tra proustiani convenevoli nel verde smorto del Bois de Boulogne. Ma soprattutto per le strepitose tavolette, denutrite di pigmenti e possenti di tempra geologica, dei brulli costoni del Vesuvio, spogli d’ogni ombra umana. Che lui raggiunge dopo ore di scarpinate sfiancanti e trionfale orgoglio agonistico, avendo disertato i lezii parigini, espulso via dalla guerra franco-prussiana.
Ma è lì che si apre il dissidio con il gallerista-dittatore Goupil (che deluderà anche Van Gogh). Il mercante-regista, suocero tra l’altro del pompier Gêrome, che ricatta i suoi artisti stipendiati, esigendo più esubero folklorico e ricchezza di dettagli (il pittore italo-americano, Joseph Stella, che poi si farà futurista e che però apprezza molto Mancini, ne farà un’etichetta, una scuola, anzi: «I Precisisti»). A tutto questo, si voglion sottrarre i migliori, i più sperimentali. Come appunto De Nittis, che lascia Goupil per esporre chez Nadar, con i primi impressionsiti (magnifico il Ponte parigino, già quasi un Dufy fauve). E perfino il calligrafico Netti, che oltre alla panoramica in «technicolor» della Corte d’Assise, pretesto di cicaleccio mondano, firma lo snebbiato La sortie du bal, che è già un fotogramma dei Vitelloni. Tutti a Parigi, dunque, come l’ex macchiaiolo Toma, come Dalbono e Leto, come il «pompeiano» Morelli. O il dannunziano (prima maniera: cioè impregnato di Maupassant e superstizione abruzzese) Michetti, con l’esplodere lapillico e spruzzato del colore, che si fa tattile e sarà di Monticelli. E soprattutto l’invasato Mancini, che torna a lenire la sua follia in patria, ma che (meraviglioso travaso!) trascina con sé, a Parigi, l’orfano-«straccione» Luigiello, tesorizzando un grumo del «Ventre di Posillipo», come se non lo potesse trovare nella Parigi di Sue e Zola. Ma gli serve per orchestrare le scene pitocchesche dei suoi pazzarielli e saltimbanchi, macilenti e torbidi, che frullano insieme le stimmate caravaggesche di Cavallino e Serodine, con le pagine crude di Matilde Serao e Scarfoglio. Aprendo le strade al miserabilismo circense di Picasso e Roualt. «Miserabilissimi miserabili», come testimonia un critico dell’epoca, che “«asseggiano di tela in tela senza lavarsi mai».
Ma la vera sorpresa è il Gemito parigino, tra Falguirès e Medardo Rosso. Capace di fluire dalla pensosità terrosa di Verdi alla fatuità mondana e sfrangiata di Boldini, dalla febbre vibratile del suo Fortuny al piglio garibaldino di Morelli. Che fa di Meissonnier un gnomo scattante, ritraendo puro il baritono Faure, primo Rodrigo del Don Carlos parigino di Verdi, primo Hamlet di Thomas, e goloso collezionista di Monet, Degas, addirittura del rifiutato Denjeuner sur l’Herbe di Manet!