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 2018  gennaio 20 Sabato calendario

L’ultimo tabù. Dalle prescrizioni religiose, alle metafore, ai pudori: le mestruazioni restano un argomento innominabile. Intervista a Élise Thiébaut

In Francia «sono sbarcati gli inglesi». I Paesi Bassi reagiscono issando «la bandiera giapponese» ma attenzione anche a Sud-Est, la Grecia è invasa dai «russi». L’intera Europa sembra in subbuglio, con nemici di varia provenienza alle porte. Bussano anche in Polonia, negli Stati Uniti, in Germania, in Italia, anche se la visita ha un sapore decisamente più rassicurante: rispettivamente, si ricevono improvvisate di una nonna, una zia, un cugino, un marchese (ormai non più di moda in realtà, scalzato dalla misteriosa espressione «le mie cose», o «il ciclo»). Un enorme dispendio di fantasia che attinge dal frasario bellico o tira in ballo improbabili parenti pur di non chiamare le cose con il loro nome e pronunciare quella parola che, in tutte le società da che mondo è mondo, crea imbarazzo quando non disgusto: mestruazioni. Che poi sono il meccanismo grazie al quale nasce la vita.

«Sono innominabili perché sono un tabù millenario» sostiene Élise Thiébaut. Che invita le donne a infrangerlo con «una rivoluzione». La giornalista e scrittrice francese ha dedicato all’argomento un piccolo saggio provocatorio, dal taglio pratico-scientifico, in uscita il 23 gennaio per Einaudi: Questo è il mio sangue, sottotitolo Manifesto contro il tabù delle mestruazioni. D’altronde, pare che «la parola tabù – scrive – sia stata coniata da James Cook a partire dal vocabolario delle lingue polinesiane» e, secondo alcuni autori, il termine deriverebbe da «tapu», che indica proprio «il sangue delle mestruazioni».
Nel suo Manifesto, Thiébaut ripercorre la storia del tabù, diventato stigma, raccontando come sia comune alle tre religioni monoteiste – che nei testi sacri usano immagini discriminatorie e minacciose per tenere gli uomini lontani dalle donne in quel periodo – e come, dietro all’invenzione di espressioni folcloristiche, si nasconda una realtà pericolosa dagli effetti molto pratici. Perché si parte da piccole vergogne quotidiane – basta pensare a come «ci si passa un tampone interno sottovoce, con aria cospiratoria» – e si arriva al fatto che «la ricerca scientifica non si occupa dell’argomento» e nemmeno i governi, che in molti Paesi, tra cui l’Italia, «trattano gli assorbenti come bene non essenziale, imponendo un’Iva di oltre il 20%».
Nel saggio parla del bisogno di una «rivoluzione mestruale». Il primo passo?
«Capire che le mestruazioni sono un tema sociale e politico. E che il cambiamento deve partire dalle donne, che non devono più vergognarsene ma viverle con orgoglio. L’argomento ha cominciato a emergere solo di recente, mezzo secolo dopo la nascita del movimento femminista: questa sarà forse la prima rivoluzione al tempo stesso sanguinosa e pacifica, e potrebbe essere la madre di tutte le battaglie per l’emancipazione».
E l’atto finale?
«Ricerca scientifica, innanzitutto. È possibile che non si sappia – perché è così, fateci caso sulle confezioni – cosa contengono davvero gli assorbenti che entrano in contatto con il nostro corpo? E poi la sindrome da choc tossico, è follia che ancora si ignori cosa la provochi. O l’endometriosi, che colpisce il 15-20% delle donne: viene diagnosticata tardi e gli studi latitano. Non sappiamo nulla o quasi di questioni fondamentali della nostra salute. Per non parlare dell’impegno degli Stati: è assurdo pagare così tanto per gli assorbenti, tassati come se fossero dei beni di lusso. In Francia una battaglia ha permesso di abbassare l’Iva ma la strada è ancora lunga. Solo nel mio Paese le donne con le mestruazioni sono 16 milioni. Cosa succederebbe se, nel mondo, si mettessero tutte insieme per chiedere i loro diritti?».
E se fossero gli uomini ad avere le mestruazioni?
«Diventerebbero motivo di orgoglio, come scriveva spiritosamente Gloria Steinem negli Anni 80. I ragazzi celebrerebbero l’arrivo del ciclo, il Congresso creerebbe un Istituto per combattere i dolori mensili e il governo stanzierebbe fondi per gli assorbenti. Invece sono le donne ad averle, e quindi perdono valore, o diventano una cosa sporca, di cui vergognarsi».
Il suo libro arriva a 20 anni circa dal debutto deiMonologhi della vagina. Auspica per le mestruazioni lo stesso effetto?
«I Monologhi hanno aiutato il mondo ad usare quella parola senza pudore o paura. Per me sono stati molto importanti, la prima volta che ho visto la pièce ho pianto e sicuramente mi ha ispirata. Mi piace pensare che sia arrivata l’ora di un canto delle mestruazioni».
I motivi alla base del tabù sono molti, ma qual è il principale?
«Il fatto che sono legate al tabù dell’incesto, e che conferiscono alle donne un potere, quello della riproduzione, che la società patriarcale ha voluto soffocare. Sono state, e a volte sono ancora, un pretesto per estromettere le donne dagli spazi pubblici. La maledizione si è poi rafforzata con le religioni, che hanno contribuito a diffondere leggende per evitare che si avessero rapporti sessuali in quel periodo e nella settimana seguente. Con il risultato che succedeva proprio durante l’ovulazione, quando la donna è più fertile».
I tempi stanno cambiando: alcune artiste e sportive stanno facendo sentire la propria voce. Anche la pubblicità sembra dirigersi verso rappresentazioni più realistiche.
«Lo sport sta facendo molto. Basta pensare a Kiran Gandhi, che nel 2015 corse la maratona di Londra senza assorbente, perdendo sangue, per denunciare lo stigma che ancora persiste, il pregiudizio. Sulla pagina di Wikipedia della maratona non c’è una riga. Curioso no? Sulla pubblicità invece non sono fiduciosa: alle aziende chiederei piuttosto di dirci di cosa sono fatti gli assorbenti».
Parlando di donne, ha fatto molto discutere la lettera sul «diritto degli uomini di importunarle» firmata tra le altre da Catherine Deneuve. Cosa ne pensa?
«Che è giusto dare agli accusati il diritto di difendersi ma il cuore della lettera era un altro: un’idea molto vecchia del rapporto fra i sessi, firmata da un’élite di donne bianche e ricche che difende la propria classe sociale e non è abituata ad andare per strada».