La Stampa, 20 gennaio 2018
Intervista a Giancarlo Giannini: Il cinema è un’arte che sta sparendo. Mai avuto il fuoco sacro per questo lavoro
Un perito elettronico abituato «alla calma, al senso dell’attesa, alla precisione». Uno che, da bambino, seguiva corsi di aeromodellismo, imparando a lavorare il legno per costruire le ali di piccoli aerei e poi attaccarle, trepidante, con la colla preparata a mano: «Passava la notte, e la mattina correvo a vedere se l’ala stava su dritta». Seguendo lo stesso metodo Giancarlo Giannini, nato a La Spezia nel 1942, è diventato uno degli attori più apprezzati, prolifici e versatili della scena internazionale: «La perfezione è una dannazione, ma anche un’etica che ti rende difficile ammettere la stupidità degli altri». Il segreto di Giannini non è negli stereotipi che spesso accompagnano la scelta della recitazione: «Il fuoco sacro non l’ho mai avuto e non è vero che sia nato per fare questo mestiere. Poi, certo, una volta iniziato, ho cercato di farlo al meglio».
Per lei cosa significa recitare?
«Continuare il gioco di quando si è bambini, ricostruire un mondo non realistico, dare spazio alla fantasia».
Lei è anche insegnante: cosa raccomanda ai suoi alunni?
«Cerco di far capire loro l’importanza della gioia di vivere, della capacità di tornare fanciulli. Poi, certo, bisogna conoscere alcune regole, sapere che, a volte, una pausa è più importante di una battuta».
Si definisce un perfezionista, caratteristica poco in voga nei nostri tempi, forse difficile da trasmettere agli studenti.
«Oggi si affronta tutto in modo superficiale, ma non si può pretendere che i ragazzi sappiano tutto. Anzi, forse è meglio che non sappiano nulla. Anche se è un peccato che non siano interessati al passato e restino convinti che tutto quello che serve è nei computer. Non è così, la nostra mente è molto più bella, il computer è scemo, ti informa e basta, noi sappiamo fare altro».
Ha sempre ironizzato sulla recitazione all’americana, sui suoi colleghi che, per calarsi nei ruoli, raccontano di aver appreso apposta mestieri mai praticati prima.
«È vero, non credo sia necessario “entrare” nel personaggio, il punto è rappresentarlo. L’arte, diceva Benedetto Croce, è andare oltre. Lo dimostrano attori come Mastroianni, che hanno lasciato un segno meraviglioso nel nostro mestiere».
I più grandi li ha conosciuti tutti, cosa le hanno trasmesso?
«Sono stato molto fortunato. I migliori fra i registi, penso a Pasolini o Antonioni, sono sempre i più semplici del mondo, anche se magari sembrano complicati nel loro modo di raccontare. Con loro ho potuto fare il gioco preferito, raccontare le favole agli adulti».
È stato molto amico di Vittorio Gassman. Che cosa vi legava?
«Gli ho voluto molto bene. Abbiamo avuto un rapporto bellissimo, due mondi diversi che si incontrano. Ho lavorato con lui nella fase in cui soffriva di depressione, si era legato a me, riuscivo a farlo ridere, insieme eravamo contenti».
Che cosa ha rappresentato per lei Lina Wertmüller?
«È stata la mia maestra. Ha capito che cosa poteva fare con me. Senza di lei, come attore forse non esisterei. Non ci piaceva la convenzione, lavoravamo insieme sulle storie e forzavamo molto tutto, rischiando. Sbagliare serve, può aiutare a fare piccole scoperte».
Alcuni duetti tra lei e Mariangela Melato sono entrati a far parte della storia del costume. Su cosa si basava la vostra intesa?
«Eravamo molto amici, venivamo tutti e due dal teatro, c’era intesa e lei era bravissima, basta vedere le cose che fortunatamente ci ha lasciato».
Ha lavorato tanto in America. Quanto è diverso quel cinema dal nostro?
«È una grande macchina industriale, ma anche loro si ripetono tanto. Per un attore non cambia dove sei, c’è la macchina da presa, l’obiettivo, e tu che devi recitare. Quello che conta è il rapporto uomo-immagine».
Adesso è tornato in tv con «Romanzo famigliare» di Francesca Archibugi, dove interpreta il cavalier Gian Pietro Liegi, patriarca problematico, alla guida della holding di famiglia. Che cosa l’ha attirata?
«È una storia intrigante e mi incuriosiva il mio personaggio, un uomo potente che, quando si ammala, scopre di poter essere una persona migliore».
Come sceglie i suoi impegni?
«Mi arrivano delle storie, se mi attirano le faccio. È tutto molto semplice, come al ristorante, una volta hai voglia di spaghetti alla carbonara e prendi quelli, un’altra di tortellini».
Il suo prossimo film?
«Ho recitato in “Notti magiche” di Paolo Virzì: è un po’ la storia del cinema italiano tra i 70 e gli 80, io faccio un produttore».
Gli ultimi dati parlano di un cinema italiano in forte crisi, che cosa ne pensa?
«Il cinema ha un ri-corso storico verso il basso, probabilmente perché è un’arte che sta sparendo. Non a caso Fellini, 30 anni fa, sul set dove andavo spesso a trovarlo una sera mi disse: “Giancarlo guarda che il cinema è morto, vedrai che tra un po’ si andrà al cinema come al museo”. In fondo aveva ragione, l’evoluzione della tecnologia ha cambiato tanto le cose, i ragazzi vedono tutto sul cellulare».
È vero che ha detto di no a Coppola e a Spielberg?
«Sì, incontrai Coppola in America, insieme alla Wertmüller, dovevo fare un personaggio di “Apocalypse Now”, ma avevo già preso impegni con Visconti. Feci un ruolo dopo, in “New York Stories”. Quando ho rifiutato è sempre stato perché avevo un’altra cosa in ballo. Successe anche con Spielberg, dovevo essere l’antagonista nei “Predatori dell’arca perduta”, le riprese tardarono di 5 o 6 mesi e io, a quel punto, dovevo iniziare la lavorazione con Fassbinder. Spielberg mi chiamò chiedendomi di lasciar perdere, ma per me era impensabile».
Suo figlio Adriano fa il suo stesso lavoro. È contento?
«Adriano ha cominciato come tecnico della fotografia, dall’altra parte della macchina da presa, poi ha provato a recitare, è andata bene. Gli ho sempre lasciato la massima libertà: quello dell’attore è un mestiere difficilissimo, soprattutto in Italia dove ci sono grandi talenti non adeguatamente sfruttati».