La Stampa, 20 gennaio 2018
Usa e Cina contro i bitcoin
Il bitcoin si ferma sulla porta di ingresso di Wall Street. La Sec – l’autorità statunitense di controllo che corrisponde alla nostra Consob – ha chiarito che, prima di lasciarlo in qualche modo entrare nel tempio della finanza, occorreranno garanzie a tutela degli investitori. La questione è nero su bianco in una lettera inviata da Dalia Blass, direttrice della divisione Investment Management della Sec, a due società che volevano quotare degli Etf, strumenti derivati che consentono di scommettere su un bene, in questo caso il bitcoin. Ma visto che ci sono tante piattaforme di scambio, si chiede Blass, sulle quali il prezzo differisce sensibilmente, a quante e quali si farebbe riferimento? E quali garanzie di liquidità dovrebbe offrire chi tratta un Etf? «Come fatto in passato, siamo pronti a un dialogo sul potenziale sviluppo di questi fondi – scrive la dirigente Sec – tuttavia crediamo che ci siano diverse questioni da esaminare sulla protezione degli utenti». Non è la prima volta che la questione arriva sul suo tavolo. Ci avevano già provato lo scorso marzo, anche in quel caso senza risultato, i gemelli Winklevoss, gli imprenditori famosi per aver contestato a Zuckerberg la paternità di Facebook e tornati di recente alla ribalta per essere diventati i primi miliardari in bitcoin. Ora il nuovo no. Ma «la comunicazione della Sec non è una porta sbattuta in faccia, vuole solo definire una serie di questioni a tutela dei risparmiatori», spiega Carlo Alberto De Casa, capo analista di ActivTrades. La mossa è sostanzialmente in linea con le iniziative di Francia e Germania, che si preparano a regolamentare il settore, spingendo per una normativa europea e portando la cosa anche al G20. Scongiurato il rischio chiusura, le piattaforme di scambio proseguono le loro attività. Insomma «la grande paura pare passata», sintetizza De Casa, tanto che il valore, dopo essere sceso sotto i diecimila dollari, prosegue il rimbalzo sopra gli 11.500.
In direzione decisamente diversa va la Cina, dove arriva una ulteriore stretta, la terza in pochi mesi, con l’obiettivo molto più aggressivo di stroncare ogni compravendita di bitcoin. La Banca centrale di Pechino ha emesso una nota che non solo proibisce questa attività, ma invita gli istituti ad «aumentare i controlli sulle transazioni e chiudere tempestivamente i canali di pagamento una volta che si è scoperto un sospetto scambio di criptovalute». «La Cina ha il più alto numero di banche ombra al mondo, banche non riconosciute dalla banca centrale, e la gente fa trading coi derivati senza nessuna garanzia», spiega Giulio Sapelli, economista che insegna storia economica all’università di Milano, perciò non possono che essere più tranchant: per loro il bitcoin è una grana ulteriore che si aggiunge a una situazione già fuori controllo. Come finirà? «È comprensibile che le autorità cerchino di controllarlo ma il bitcoin non è veramente controllabile perché è internet che arriva alle monete, è l’email del denaro», prevede Carlo Alberto Carnevale Maffé, professore di economia alla Bocconi e osservatore di lungo corso del fenomeno delle criptovalute. «Prima la geografia – sottolinea – determinava la giurisdizione su tutto. Quell’era è finita, oggi la geografia non determina più la giurisdizione su molte cose» e così arriva persino un limite «all’onnipotenza delle banche centrali». Insomma, dice, è impossibile creare un controllo globale. E infatti, se Washington, Bruxelles e Pechino stanno stringendo o chiudendo i rubinetti, Mosca si prepara ad approfittarne: investitori privati hanno comprato due centrali idroelettriche per convertirle in una “mining farm” e in un centro elaborazione dati. Si tratta di due centrali nella regione di Perm e in Udmurtia. Stando agli esperti, la legislazione russa e il basso costo dell’energia nel paese creano condizioni favorevoli per questo tipo di progetti.