La Stampa, 20 gennaio 2018
Bitcoin. Il vero peccato originale è che nessun governo controlla la criptovaluta
Zuppa, insalata e bitcoin? A Londra si può grazie al bancomat che dispensa criptovaluta a Nincomsoup, ristorante super-trendy vicino alla City. Una «moneta elettronica» che cinque anni fa esisteva solo sui computer di pochi nerd è diventata fenomeno di massa mondiale: si può comprare con la zuppa, ha prodotto un sistema di pagamenti usato da migliaia di società.
Ed è al centro di una bolla speculativa che ricorda i tulipani olandesi del ’600.
I governi hanno preso nota, proprio alla vigilia di Davos, la Woodstock politico-economica che di criptovalute parlerà molto. In meno di una settimana, le autorità americane, cinesi e sudcoreane hanno dichiarato guerra ai bitcoin, preoccupati degli effetti deleteri che una moneta «anarchica» potrebbe avere su economia, finanza e mercati. La Cina, come di consueto, ci è andata con la mano pesante, proibendo sia la vendita sia lo scambio di bitcoin sulle borse. La Corea ha fatto più o meno lo stesso, mentre i regolatori americani, per proteggere i piccoli investitori, hanno detto di no a fondi quotati che investono in bitcoin.
I molti (troppi) tifosi di bitcoin considerano un complimento il fatto che due superpotenze rivali quali la Cina e gli Usa – e la Sud Corea, uno dei Paesi più importanti nel panorama geo-politico attuale – investano tempo e risorse per disinnescare la bomba a orologeria delle criptovalute. Ma non hanno capito che questo sarà l’inizio della fine per bitcoin e monete «cugine», tipo Ethereum, Ripple, Litecoin...
Qual è il problema? Ce n’è uno fondamentale e molti altri affini. Il peccato originale delle criptovalute è che non sono controllate dai governi. A differenza di dollaro, euro e yen, bitcoin non è emessa da una zecca di Stato ma «minata» in segreto da investitori attraverso formule matematiche astruse. Questo semplice fatto è la ragione che non permetterà a bitcoin di soppiantare le monete tradizionali. Uno dei poteri più importanti dei governi è il controllo dell’economia attraverso il «denaro fiat» – le monete a costo forzoso che esistono solo perché le autorità centrali lo permettono. Nessun politico, né di destra, né di sinistra, può tollerare il rischio che intere parti dell’eco-sistema economico si possano sottrarre allo scrutinio governativo attraverso una criptovaluta.
«Sono monete finte. Le teniamo in vita fino a quando non è un problema e poi le ammazziamo», mi ha detto un po’ di tempo fa un regolatore. Non è un caso che banche centrali in Inghilterra, Olanda e persino Cina stiano studiando criptovalute proprie, completamente controllate dalle autorità statali. È un paradosso evidente: la natura libera, sovversiva e un po’ cool di bitcoin ne arresterà la crescita. Chi è a favore di questa moneta-contro potrà inveire contro i governi autoritari, ma la realtà è che è ingenuo pensare che i politici non rispondano ad un attacco così sfacciato ai loro poteri. I governi hanno buon gioco perché l’ecosistema delle criptovalute non è pulitissimo. bitcoin si può comprare e vendere nel più completo anonimato, senza essere spiati da governi e polizia. È proprio questa segretezza che ha fatto di bitcoin la moneta più amata da truffatori, criminalità organizzata e chiunque voglia riciclare denaro sporco.
È vero che l’infrastruttura dei pagamenti di bitcoin – chiamata blockchain – è anche utilizzata da società oneste ed è altrettanto vero che anche il denaro «normale», soprattutto i contanti, può essere utilizzato da malfattori. Ma le criptovalute sembrano quasi concepite per questo tipo di attività illecite. E poi ci sono i mercati. Un bitcoin valeva sei cent nel 2011. Un mese fa, era quotato a più di 19 mila dollari, un’ascesa incredibile e molto, molto pericolosa. Le azioni dei governi di mezzo mondo hanno contribuito ad un crollo negli ultimi giorni a più o meno 10 mila dollari. Questa settimana, il valore totale di bitcoin è sceso di circa 30 miliardi di dollari in meno di 24 ore.
Sono movimenti da brivido. Laszlo Birinyi, il vecchio guru degli investimenti di Wall Street lo ha spiegato molto chiaramente: «Non vorrei tornare a casa con un sacco pieno di bitcoin», ha detto alla Cnbc. Purtroppo ci sono tanti investitori e hedge fund con tanti sacchi pieni di bitcoin e i regolatori e politici tremano. A dieci anni dalla Grande Crisi del 2008, con le economie occidentali in crescita, ma abbastanza fragili (basti pensare all’Europa), sarebbe un disastro se un crac finanziario si abbattesse sui mercati mondiali.
La leggenda delle criptovalute ribelli sta arrivando al capitolo finale.
Direttore di Dow Jones
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