Il Sole 24 Ore, 20 gennaio 2018
Tra shutdown e voto di novembre, la lunga battaglia del Congresso
Il governo americano è ostaggio di un duro scontro tra Casa Bianca e maggioranza repubblicana al Congresso e l’opposizione democratica. Uno scontro degenerato nella battaglia sullo “shutdown” dell’amministrazione federale, il blocco dei servizi non essenziali per mancanza di fondi previsto a cominciare dalla mezzanotte di ieri in mancanza di accordi in extremis sul budget. E dove la spaccatura più grave è emersa, ancora una volta, su uno dei temi più scottanti della presidenza di Donald Trump: l’immigrazione.
Qualunque l’esito delle manovre di queste ore per scongiurare crisi, la partita potrebbe essere solo agli inizi: un’eventuale paralisi dal fine settimana minaccia danni e nuovi veleni per l’agenda politica ed economica del Paese, preoccupando mercati che finora hanno mostrato nervi saldi e ottimismo sull’outlook degli Stati Uniti. Anche precarie intese lasciano però presagire escalation di conflitti e reciproche accuse di irresponsabilità in vista delle elezioni di metà mandato di novembre, che mettono in palio il controllo del Parlamento. Il dramma, inoltre, potrebbe ripetersi tra giorni o settimane allo scadere di provvedimenti temporanei di finanziamento.
Gli shutdown, in realtà, sono blocchi parziali: colpiscono le attività classificate come non strategiche o indispensabili; comprendono parchi e musei nazionali ed escludono invece forze armate, sicurezza, traffico aereo e infrastrutture cruciali, sanità essenziale. L’amministrazione ha messo a punto piani d’emergenza per minimizzare traumi nei servizi. Ma il danno – politico, economico e di credibilità interna e internazionale – è più difficile da valutare e può essere ugualmente ingente: l’ultima semi-paralisi costò cara sotto la presidenza di Barack Obama. Nel 2013 si protrasse per 16 giorni, bruciò 24 miliardi e lasciò momentaneamente senza lavoro 850mila dipendenti pubblici.
La saga odierna ha visto la Camera approvare giovedì notte, con 230 voti contro 197, un provvedimento-tampone fino al 16 febbraio, il quarto dall’inizio dell’anno fiscale in ottobre in sostituzione di un budget annuale vero e proprio reso impossibile da divergenze su spesa e tagli. I deputati hanno tuttavia ignorato la richiesta dei democratici di risolvere contemporaneamente il dilemma della legalizzazione dei Dreamers, gli 800mila clandestini arrivati da bambini nel Paese e ai quali Trump ha tolto – da marzo – la protezione presidenziale garantita da Obama. Un’esclusione inaccettabile agli occhi dell’opposizione, che al Senato ha i voti per fermare il budget: alla Camera Alta serve una super-maggioranza di 60 senatori su cento al fine di portare una legge in aula; i repubblicani ne hanno al massimo 51 e temevano almeno quattro defezioni.
Trump ha complicato i negoziati scatenando ulteriori controversie: è parso bocciare un altro provvedimento delicato, il rinnovo per sei anni del programma di assistenza medica ai minorenni indigenti Chip, per poi fare marcia indietro. E ha rilanciato la costruzione di un muro contro il Messico – polemizzando con il suo stesso capo di staff John Kelly – dopo aver apostrofato con insulti le nazioni povere di origine di molti immigrati.
In un segno della crescente tensione e posta in gioco, tuttavia, aveva annunciato fin dalla mattinata che senza compromessi sul budget avrebbe cancellato un previsto fine settimana in Florida. E nel pomeriggio ha convocato per frenetiche trattative il leader democratico Chuck Schumer. La Casa Bianca vorrebbe passare al più presto a nuovi progetti, quali un piano infrastrutturale da mille miliardi promesso entro fine mese.