la Repubblica, 20 gennaio 2018
Dove si trova la bellezza segreta della matematica
Ulrich, il protagonista del capolavoro di Robert Musil, L’uomo senza qualità, è un matematico. Scisso tra “anima” ed “esattezza” (proprio come il suo creatore letterario), si trova a essere «innamorato della scienza in modo più umano che scientifico» e, in contrasto con l’atmosfera di dissolvimento culturale che domina la Kakania, «ama la matematica per via di quelli che non la possono soffrire». In un memorabile capitolo del romanzo – un capitolo, avverte l’autore, «che può essere saltato da chi non tiene in gran conto l’esercizio del pensiero» – lo troviamo non occupato a svolgere le sue quanto mai vaghe mansioni di segretario onorario dell’inconsistente “Azione parallela”, o indaffarato in una nuova conquista femminile, ma, per l’unica volta nell’intera narrazione, intento a riflettere su un difficile problema matematico: «Aveva tirato le tende e lavorava con la luce soffusa, come un acrobata che in un circo in penombra, prima che venga ammesso il pubblico, si esibisce in nuovi salti pericolosi davanti a una platea di intenditori. La precisione, la forza e la sicurezza di questo pensiero, che nella vita non hanno uguali, lo colmavano quasi di malinconia».Ben diversa dalla uggiosa e indigesta disciplina con cui tutti noi, purtroppo, abbiamo dovuto confrontarci sui banchi di scuola, la matematica, per Musil, è un’attività funambolica del pensiero, nella quale si combinano eleganza e leggerezza, «un’ostentazione di audacia della pura ratio, … una delle avventure più appassionanti e incisive dell’esistenza umana» (così si legge in un saggio dello stesso autore pubblicato nel 1912).Un’immagine consimile, seppure ispirata più alla grazia delle ballerine di Degas che all’abilità degli acrobati da circo, ci viene restituita da Paul Valéry, il “poeta del rigore impassibile della mente” (definizione, questa, di Italo Calvino) che ha disseminato le pagine dei suoi Cahiers di centinaia di profonde osservazioni consacrate alle scienze matematiche: queste non si esauriscono affatto in un’arida concatenazione di calcoli e deduzioni logiche, ma «sono esercizio e comparabili alla danza». Non si deve credere che una siffatta idea della matematica esprima soltanto lo strampalato punto di vista di letterati poco familiari con le ferree esigenze del rigore, per quanto Musil avesse una solidissima preparazione scientifica e Valéry fosse un autodidatta tanto appassionato quanto avvertito. Karl Weierstrass, il principale artefice della rifondazione dell’analisi nell’Ottocento, sostiene, per esempio, che ogni matematico debba essere anche un po’ poeta; Henri Poincaré sottolinea l’“intima bellezza” delle discipline razionali, che «deriva dall’ordine armonioso delle parti»; e Godfrey Hardy, l’autorevole teorico dei numeri che ebbe anche il merito di riconoscere il genio di Srinivasa Ramanujan (la vicenda è raccontata nel recente film L’uomo che vide l’infinito di Matt Brown), scrive, con snobismo tutto britannico, che il talento dei grandi matematici è paragonabile soltanto a quello dei fuoriclasse del cricket.Ma ha davvero senso applicare categorie estetiche alla matematica? Una dimostrazione – si potrebbe essere tentati di obiettare – è corretta oppure no: nel primo caso, il matematico si limita ad applicare pedissequamente le regole di deduzione logica (cioè, in buona sostanza, i sillogismi di aristotelica memoria) all’insieme di assiomi che ha scelto come punto di partenza e se ne infischia della bellezza. In maniera analoga, un teorema può essere “vero”, o se si preferisce essere epistemologicamente più cauti, “valido”, cioè deducibile nel sistema formale che costituisce l’universo in cui sviluppiamo il nostro ragionare – non certo elegante, aggraziato e meno che meno acrobatico. Una formula, infine, costituisce un assemblaggio di simboli che necessitano, in ogni caso, di essere interpretati: sarà possibile ritenerla efficace o perspicua, ma non bella o armoniosa. Come controbattere a queste considerazioni che spogliano la matematica di qualsiasi fascino intellettuale?Una possibile argomentazione potrebbe consistere nel fare appello a una venerabile tradizione filosofica di stampo platonico (o, meglio, neo-platonico), secondo cui il “vero” e il “bello” necessariamente coincidono.Tale linea di pensiero ha goduto di larga fortuna tra i matematici e, più in generale, gli scienziati, dagli albori della cosiddetta rivoluzione scientifica fino ai nostri giorni. Così, per esempio, Johannes Kepler asserisce che la «geometria è l’archetipo della bellezza del mondo» e, quasi quattrocento anni più tardi, Werner Heisenberg, uno dei padri della meccanica quantistica, in una conferenza del 1970, dichiara che l’idea di bello nel campo delle scienze esatte va intesa come «giusta armonia delle parti tra loro e rispetto al tutto».Ma non è necessario, per quanto rassicurante, cercare rifugio nell’iperuranio platonico per legittimare la non arbitrarietà dell’uso di aggettivi quali “bello”, “elegante”, ecc. in riferimento a formule, teoremi e dimostrazioni. È sufficiente visitare il “Mondo 3” di Karl Popper, che contiene tutti i prodotti della mente umana: i linguaggi, i racconti, i miti religiosi, le costruzioni matematiche e le teorie scientifiche, le canzoni e le sinfonie, i romanzi, le sculture e i dipinti. In questa prospettiva filosofica, la matematica – come mostrano gli esempi di Cantor, Poincaré o Grothendieck – è assimilabile a un’arte, sebbene del tutto particolare, nella quale l’arbitrarietà delle invenzioni si concilia con il rigore delle dimostrazioni e l’immaginazione si accorda con la ragione. La bellezza è inscindibile dalla libertà creativa.