la Repubblica, 20 gennaio 2018
Quando la crisi ferisce il polmone del mondo
Da terra si vede poco. Ma dall’alto, grazie alle foto satellitari, il cuore del Brasile sembra punteggiato da macchie scure. Come le metastasi di un tumore. Migliaia di garimpeiros, minatori illegali, avventurieri, mercenari, taglialegna mettono a rischio la foresta amazzonica.
Finanziati e protetti dal blocco dei rurales, i potenti latifondisti e proprietari terrieri, si spingono sempre più all’interno della giungla ed erodono centinaia di chilometri quadrati di verde.Il cosiddetto “Arco di deforestazione”, un fronte boschivo che attraversa sei Stati e taglia in due il paese, è riuscito a risparmiare finora la parte centrale dell’Amazzonia. Ma l’obiettivo di ridurre entro il 2020 a 3.900 chilometri quadrati l’area da destinare al pascolo e coltivazioni intensive è ormai fallito.
Tra il 2004 e il 2012, il Brasile era riuscito a frenare il dissesto dell’83 per cento lasciando mano libera su 4.571 chilometri quadrati. Poi, complice la crisi, il peso politico della lobby del legno e la fragilità del governo Temer, la corsa è ripresa.
Tra agosto 2015 e luglio 2016 l’area libera da vincoli si è estesa a 7.893 chilometri quadrati. Una terra senza leggi dove comandano le armi. Le trenta guardie forestali dell’ICMBio, l’Agenzia governativa che sovrintende all’amazzonia brasiliana, fanno quello che possono. Devono vigilare su 4 milioni di ettari di terreni e boschi, muniti solo di Gps. Una caccia impossibile. Anche perché quando decidono di agire con sequestrati di attrezzature e sigilli scoppia la rivolta. È successo ottobre scorso. A Humaitá, la porta d’accesso dell’Amazzonia. Migliaia di minatori illegali sono usciti dalla foresta e hanno assediato gli uffici dell’Ibama, l’Agenzia brasiliana per l’Ambiente.
Protestavano per il sequestro delle barche che usavano per dragare i fiumi della zona alla ricerca di oro. Usavano il mercurio. I corsi d’acqua erano stati inquinati tracimando nei terreni vicini con il loro veleno. Stragi di pesci, indigeni senza cibo, foreste trasformate in lande deserte. Il sequestro è stato preso come un affronto. I garimpeiros hanno assaltato gli uffici governativi e gli hanno dato fuoco. La sede governativa ha bruciato per ore, osservata dai minatori clandestini e dai boscaioli accampati nei dintorni. Alla fine si sono ripresi le barche e sono tornati a cercare oro e ad abbattere alberi.La domanda di legno, soprattutto europea, e di cibo da parte della Cina, rafforza il blocco ruralistas dominante al Congresso. Assieme agli altri due fronti conservatori, quello della sicurezza pubblica e quello evangelico, noti come «toro, proiettili e Bibbia», sono in grado di condizionare le politiche ambientali del governo.
Rappresentano l’agro-business, un settore che contribuisce al 42 per delle esportazioni. Nessuno è disposto a fermarlo. Il Brasile è tornato a essere il più grande esportatore di zucchero, succo d’arancia, pollo e caffè. Meglio disboscare. Ai danni ambientali e climatici ci penseranno le generazioni future. Il presidente Temer lo sa: si è salvato dalla doppia incriminazione per corruzione passiva e associazione a delinquere grazie al voto delle delle tre lobby. Soltanto l’ondata di sdegno sulla rete, partita da un tweet di Gisele Bündchen, oltre a una sentenza della Corte suprema l’ha costretto a revocare la vendita di un’area protetta dell’Amazzonia ai privati. È la sfida più grande per il Brasile», sostiene Carlos Norbe, massimo scienziato del clima. «Se non si dimezza la superficie di deforestazione le conseguenze si avvertiranno in tutto il pianeta. Ma allora sarà troppo tardi».