Corriere della Sera, 20 gennaio 2018
Giallo Soderbergh. «Diversi punti di vista per un solo thriller: serie tv a più dimensioni con Sharon Stone»
«Da anni ragionavo sulla possibilità di seguire percorsi diversi per raccontare storie. Usare quella che io chiamo narrativa ramificata: dare allo spettatore la possibilità di seguire la storia da punti d’osservazione diversi. Ma mi pareva troppo complicato, inelegante. E non avevamo una buona tecnologia interattiva. Poi nel 2012 un produttore mi ha proposto un approccio diverso e nel frattempo la tecnologia è maturata: ci siamo lanciati nel progetto di Mosaic. Abbiamo dovuto rivoluzionare il nostro modo di lavorare, ma ne è valsa la pena: ora abbiamo un modo nuovo di fare storytelling».
Quella di Steven Soderbergh, che incontro negli studi della rete HBO a Manhattan quando sta per arrivare sugli schermi questo nuovo film tv psicologico-poliziesco (in Italia dal 30 gennaio su Sky Atlantic), è una carriera segnata dal gusto della sperimentazione fuori dai rigidi canoni di Hollywood, oltre che dai successi di critica e commerciali: da Sesso, bugie e videotape (Palma d’Oro a Cannes) a Ocean’s Eleven, da Erin Brockovich a Traffic che gli diede l’Oscar.
Il pubblico televisivo non se ne accorgerà perché non avrà tra le mani la app (tra l’altro non disponibile in Europa) creata per la versione «multidimensionale» della storia, ma dietro c’è un lavoro enorme.
«Abbiamo dovuto raccontare e filmare Mosaic più volte dal punto di vista dei vari protagonisti, stando bene attenti a rispettare in ogni versione la concatenazione temporale dei fatti: cambiano i punti di vista soggettivi, ma i fatti restano gli stessi. Abbiamo riempito intere pareti di un loft di Chelsea di foglietti con la scansione degli eventi, riportandole poi nelle varie storie filmate. Ogni sequenza girata più volte. La sceneggiatura è venuta dopo, oltre 500 pagine. Un gran lavoro, è vero».
Ne è valsa la pena? Qualcuno dice che tutto questo irrigidisce la narrativa, che il cervello umano è fatto per seguire storie lineari. L’esperienza di questi mesi (la app di Mosaic è disponibile negli Usa da novembre) cosa le suggerisce?
«L’homo sapiens è una specie che apprende e comunica attraverso le storie. Quando mi hanno detto che dovevo proporle anche sul piccolo schermo dello smartphone mi sono chiesto se, anziché lamentarmi perché questo degradava il mio lavoro, non ci fosse il modo di utilizzare il pieno potenziale del nuovo strumento. Abbiamo imboccato questa strada e funziona: l’interattività stimola gli spettatori, li fa sentire parte della storia. Che, però, sviluppiamo anche in modo tradizionale per il pubblico televisivo: sei ore divise in sei puntate. Comunque questo dell’app non sarà un esperimento isolato: abbiamo già altri due progetti di questo tipo».
Olivia Lake, interpretata da Sharon Stone, è una scrittrice di successo che viene uccisa misteriosamente in un resort sulle montagne dello Utah dove vive. Finisce in prigione il suo amante, ma poi scende in campo la sorella dell’uomo che, con la sua indagine parallela, riesce a far riaprire le indagini. Come siete arrivati alla Stone?
«Mentre costruivamo il personaggio di Olivia, con lo sceneggiatore, Ed Solomon, ci dicevamo: serve un’attrice alla Sharon Stone. Un bel giorno ci siamo chiesti: perché non proporglielo? L’abbiamo chiamata: ha accettato subito, entusiasta».
E gli altri attori come hanno reagito? A nessuno di loro avete raccontato l’intera storia e hanno dovuto girare le stesse scene più volte.
«Tutti contenti e gratificati: con tanto lavoro da fare, ognuno di loro credeva di essere al centro della trama ed era più motivato».
A quali altre innovazioni sta pensando? C’è chi vorrebbe trasformare i videogame in film e chi vede un futuro cinematografico per la realtà virtuale.
«I videogame lasciamoli a qualcun altro. Quanto alla realtà virtuale, è interessante per esperienze visuali brevi, 10-15 minuti, ma non può essere usata per il long form, storie di due ore. E poi è un’esperienza che ti isola nel tuo visore, mentre è importante l’interazione con chi segue lo spettacolo con te».
Critico da sempre del modo di produrre di Hollywood, lei è uno dei motori del cinema indipendente. E della Hollywood del caso Weinstein cosa dice?
«Un terremoto salutare. La buona notizia: quel sistema è finito, le donne hanno trovato la loro voce, non si torna indietro. Non so se sarà così anche in altri settori: una donna che lavora nelle assicurazioni può avere la stessa voce, la stessa visibilità? Ma nel cinema, anche se in ritardo, è successo. E alla velocità della luce. Il caso Weinstein è di meno di sei mesi fa e siamo già in un’altra era».