Corriere della Sera, 20 gennaio 2018
Poesia in prosa , la forma della vita
Dice: qual è la tua preferita? Qui non ho dubbi, la mia preferita è Sapere la strada. L’ho letta solo cinque o sei volte – ma metti pure dieci, son sempre poche, perché andrebbe imparata a memoria, da tanto è bella, da tanto è vera – e già ripenso a tutto quello che ho letto in vita mia, a tutto quello che ho scritto, e a quel che ho fatto di buono e di cattivo, già ripenso a tutto quello cui si possa ripensare, di fatto e di non fatto, da me e da chiunque altro, come al frutto di quell’attimo:
Ti muovi nel buio e non ti trovi, cammini piano tra le pareti di casa ma ciò che ti aspettavi non lo tocchi, ciò che sfiori è inatteso, arriva troppo presto, troppo tardi, ha spigoli nuovi, profili inauditi, allora cerchi a tentoni l’interruttore più vicino, accendi un attimo la luce per orientarti, solo un attimo per non svegliarti del tutto, e quell’attimo ti basta per individuarti, per riconoscere il tragitto un istante prima che scompaia, per incidere nella tua mente la planimetria del buio, e riprendi ad avanzare con la certezza di ogni passo, di ogni gesto, tra forme di cui ti fidi, convinto di sapere la strada nell’invisibile, ma a farti andare avanti è solo il ricordo di quell’attimo, a guidarti è solo la memoria della luce.
Poi però dice: la tua preferita cosa ? E qui i dubbi li ho eccome. Cos’è? E cosa sono tutte le altre sue sorelline che si sono tenute per mano fino alla fine di questo libro appena finito? Cosa abbiamo letto ?
Cominciamo dall’inizio, da ciò che sappiamo per certo. Di questo pezzo che ho appena copiato qua sopra (è diventato maschile, ora, e diventato un pezzo ) io so per certo che ho impiegato venti minuti, dico venti minuti, per trovare il font e la dimensione in modo che esso, il pezzo, risultasse esattamente uguale a com’è nel documento Pdf in cui l’ho letto. Doveva assolutamente spezzarsi e andare a capo negli stessi punti, di questo ero certo, e non è stato per niente facile trovare la soluzione. Alla fine l’ho trovata giocando di rientro e utilizzando un Athelas 10 – il che mi ha poi costretto a utilizzare l’Athelas, font che non conoscevo, anche per il mio testo, quello che sto scrivendo, quello che state leggendo, che infatti è scritto in Athelas 13. Dice: ma sei scemo? Come lo scrivi lo scrivi, basta che tu dica all’editore di stampare il pezzo che citi esattamente uguale all’originale, spezzato allo stesso modo: perché tutta questa fatica? Ma qui, di nuovo, non ho dubbi: no, no, no, non si può fare; grazie del consiglio ma non si può fare. Comunque si chiami, quella cosa ha una sua forma, e non si può nemmeno temporaneamente alterarla, anche se si tratta solo di uno scritto di servizio, anche se dopo, nel libro, l’impaginatore penserà a rimetterla a posto. Mi spiego: si può fare questo?
Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura, che la diritta via era smarrita. Ahi quanto a dire qual era è cosa dura esta selva selvaggia e aspra e forte che nel pensier rinova la paura!
No. La poesia è forma, è quella forma, ed è quella forma o non è, perché è resistenza per forma. È come un foglio di carta tenuto tra le dita: lo tieni dal bordo e s’affloscia, lo pieghi a U e sta dritto, lo arrotoli e lo puoi dare in testa al tuo compagno di banco – stong – e gli fai pure male. Cos’è che lo rende più o meno duro, più o meno resistente? La forma. La poesia è così, la poesia è questo e la forma che ha non si può cambiarla, nemmeno temporaneamente, nemmeno se in quei venti minuti che ci metti per trovare il modo di rispettarla dovevi fare qualcosa d’importante: la lasci lì e continui dopo, semmai, oppure arrivi in ritardo come fanno tutti. Sicché una cosa che so per certo di questi pezzi, di quello che preferisco come di tutti gli altri, è che sono poesia. Altrimenti non sarei qui a scrivere in Athelas 13.
Dopodiché c’è un’altra cosa che so per certo. Quella forma. Quella forma per rispettare la quale ho speso venti minuti del mio tempo: che forma è? Sono rettangoli, ecco che forma è. Rettangoli di testo, tutti uguali come base e diversi come altezza, che varia tra le sei e le sedici righe. Sono masse rettangolari, dunque, regolari, piene, sode, componibili, sembrano tagliate apposta per costruirci qualcosa, sembrano conci di pietra, ma d’altra parte non sono conci di pietra, sono fatti di testo, sono fatti di parole – e cos’altro sono i rettangoli pieni di parole se non prosa? E la prosa è massa, e la sua è resistenza per massa. È come un concio di pietra, per l’appunto, o un mattone, un muro, un edificio intero: porta tanto peso, e resiste al peso che porta, grazie alla massa di cui dispone, che a sua volta è definita dall’aggregato delle sue particelle costitutive – e nella fattispecie queste particelle sono le parole. Le pagine dei romanzi più poderosi sono dei rettangoli pieni di parole: centinaia, a volte migliaia di rettangoli pieni di parole. Sicché, ecco un’altra cose che so per certo: questi pezzi sono prosa – ne hanno la massa, ne hanno la resistenza.
Poesia in prosa, dunque? O basta dire prosa poetica? Sì, pare che si debba dire così: prosa poetica. Non rende del tutto onore a questi pezzi, a parer mio, perché come definizione pare un po’ arida, un po’ burocratica, ma tant’è, si tratta di prosa poetic a.
Risolto l’enigma dell’identità, c’è poi il contenuto, e il contenuto a me è sembrato un immenso repertorio di re-invenzioni del mondo interiore di tutti noi, quello dei sentimenti. E invece, tanto per cominciare, come repertorio non è affatto immenso, sono solo centoquaranta circa di questi benedetti pezzi – di queste prose poetiche: eppure sembra immenso. Sembra immenso perché, appunto, reinventa quello che tutti abbiamo provato, lo riformula da capo, punto per punto, lemma per lemma – l’amore, la colpa, la tristezza, l’estasi, il vuoto, la tenerezza, la solitudine, la curiosità, l’ispirazione, il rimorso, la malinconia —, come se si trattasse, sì, di salvarlo, questo mondo, di imbarcarlo su un’arca e di salvare dal diluvio questo mondo interiore di tutti noi. E in questo salvare tutto, riprogettare tutto, pezzo dopo pezzo, prosa poetica dopo prosa poetica, in questo sentore del diluvio che si avvicina, tutto il libro finisce per somigliare sempre più a un altro libro, a un altro repertorio di prose poetiche che sembra immenso ma non lo è, perché sembra anch’esso far ricominciare da capo il mondo, sembra addirittura ricrearlo – il mondo esteriore, stavolta, quello delle cose e non dei sentimenti. Perciò, dopo avere finito di leggerlo, mi sono ritrovato a pensare che Entro a volte nel tuo sonno di Sergio Claudio Perroni parte dove finisce Il partito preso delle cose di Francis Ponge. Appena questi ha finito di riconsiderare da zero l’universo materiale, Perroni comincia a farlo con quello dei sentimenti. Evidentemente, la prosa poetica è lo strumento per riscrivere da capo il mondo – e così facendo, di salvarlo.