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 2018  gennaio 20 Sabato calendario

Quel dialogo con Salvini sulla candidatura di Bossi

Dieci anni fa Berlusconi rivelò dal palco la promessa che si era scambiato con Bossi: «Ci siamo detti che finiremo la nostra esperienza politica insieme». Ed è in nome di quel pegno che il Cavaliere si è speso con Salvini: «Penso che Umberto sia una risorsa. È la storia della Lega». 
Per il Cavaliere e il Senatùr sarà ancora possibile «finire insieme», ma sarebbe impensabile farlo nello stesso partito. Per quanto Bossi abbia minacciato a più riprese di saltar giù dal Carroccio, sebbene sia stato ostile al processo di «nazionalizzazione» del movimento, non c’è albero che sopravviva senza radici. Perciò «Silvio» non intende strumentalizzare la delicata vicenda di «Umberto», la cui candidatura nella Lega non è stata ancora ufficializzata. È vero, con un tratto di penna potrebbe inserirlo nelle sue liste, ma sarebbe un’offesa più che un gesto d’amicizia.
E allora ha preso a perorare la causa di Bossi con Salvini, facendo di tutto per evitare frizioni e fraintendimenti con il giovane alleato. Nessuna invasione di campo, solo una constatazione che somiglia a un suggerimento: «Penso sia una risorsa...». «Lo penso anch’io», ha risposto d’istinto il segretario leghista, lasciando in sospeso la decisione che gli appartiene. Berlusconi è fiducioso sul lieto fine di una storia che stava prendendo una piega al limite del grottesco.
Non è chiaro se fosse stato Maroni a raccontarglielo o un assessore forzista di stanza al Pirellone, ma il Cavaliere era venuto a sapere di un triste episodio: prima che il governatore lombardo decidesse di non ricandidarsi, dalla Lega era giunta la richiesta di inserire Bossi nel governo regionale. L’ambasciatore è rimasto ignoto ma l’idea di trasferire il fondatore del Carroccio da Roma a Milano, affidandogli un ruolo da assessore, è diventato oggetto di discussione tra lo stupore generale.
Da allora le cose sembrano essersi aggiustate, ma non per questo Berlusconi ha smesso di informarsi su Bossi e sulla sua sorte politica, che ha un forte tratto esistenziale: se «la storia della Lega» venisse confinata nella sua Gemonio sarebbe un colpo al cuore oltre che un clamoroso fatto politico. L’altro ieri il Senatùr era alla Camera per l’ultima votazione della legislatura. Ha attraversato il Transatlantico in silenzio, accompagnato dall’angoscia che assale chi è letteralmente senza soldi: le vicissitudini giudiziarie hanno provocato anche il blocco del suo bancomat ed era ansioso di poter acquistare i sigari.
Gli anni ruggenti sono ormai un ricordo, ma la politica è un fuoco inestinguibile. «Io sono innamorato della politica», dice lo stesso Maroni, che nonostante abbia annunciato di voler cambiare vita ha avuto la terza «ricaduta» in meno di un mese. Appena annunciata la candidatura nella Lega dell’avvocato Giulia Bongiorno, ha cinguettato contro Salvini: «Come Trump, parlo via tweet». Gliene servirebbero parecchi per ricordare quanto accadde nel 2008.
Alla prima riunione di governo, che si tenne a Napoli, da ministro dell’Interno presentò il «pacchetto sicurezza»: «Tra i provvedimenti c’erano anche le norme sul reato di immigrazione clandestina. Ma contro la proposta si scagliò l’allora presidente della commissione Giustizia della Camera, che era per l’appunto Giulia Bongiorno. E siccome, oltre a essere avvocato di Andreotti, era anche una fedelissima di Fini, si accantonò il progetto». Massì le cose cambiano. E secondo Maroni cambieranno ancor più tumultuosamente dopo il voto.
Alle viste è un processo di trasformazione «per certi versi simile a quello del ‘93-94», e il «ricambio generazionale si porterà appresso anche gli attuali partiti». Non è dato sapere se quella del governatore uscente sia una profezia o una scommessa politica estesa persino alla Lega: «Ma no, io sono un vecchietto... Osservo semplicemente le cose. Ricordo solo che allora la Dc, no dico la Dc, scomparve in un lampo. E noi ne eravamo convinti, perché vedevamo cosa accadeva sul territorio. Non bastò che cambiassero il nome in Ppi. E infatti l’Umberto chiamava Martinazzoli “Mortinazzoli”». 
Gli anni Novanta, la fine dei vecchi partiti, il ricambio dei leader: quante analogie e quante allusioni da parte di Maroni. Fino al ricordo di Bossi con cui Berlusconi vuole chiudere «insieme».