la Repubblica, 20 gennaio 2018
Donald Sutherland: «Cosa mi ha salvato dalla morte? Il lavoro, l’amore e Venezia»
«Prima di iniziare, confesso: sono sordo». Donald Sutherland ha gli occhi chiusi, si aggiusta la cravatta. «Non sento», risponde alla prima domanda. La seconda: «Prego?». Terza: «Chiamiamo un interprete». In piedi sulla porta, si volta e sussurra all’orecchio: «La sto prendendo in giro». Giù una sonora risata. In un minuto l’Oscar onorario di quest’anno ci ha ingannati e ha confessato il suo amore per Paolo Virzì («Il candore di quest’uomo lo trovo solo nei classici d’animazione Disney»). Nel film americano di Virzì, Ella & John, in sala, Sutherland è un ex insegnante di inglese affetto da Alzheimer; Helen Mirren è la moglie malata di cancro.
Perché, a 82 anni, ha scelto una storia d’amore?
«Se può farlo il mio amico Robert Redford perché io no?».
Qual è il segreto di una relazione?
«A James Joyce una volta hanno chiesto del rapporto con la musa e compagna Nora Barnacle. Joyce ci ha pensato su, poi ha detto: “Riconoscerei il peto di mia moglie in una stanza piena di peti”. Concordo. Quarant’anni fa ero a Londra a girare Alien Thunder. In un momento di pausa sul set, vedo per la prima volta mia moglie Francine. Incantevole, con un vestito bianco.Si avvicina, mi guarda e fa: “Tutto a posto?”. E… Prrr!! Una pernacchia. Ero a un tavolo da poker con gli attori dietro la roulotte; uno di loro, imbarazzato, grida: “Sono stato io!”. (ride) Anche mia madre era così. Ogni passo “prrr”. Bè, l’amore non è solo questo, certo. Ma i peti sono una parte essenziale del rapporto».
Ha lavorato con Robert Altman, Dulton Trumbo, Nicolas Roeg, John Schlesinger…
«E ho una lunga tradizione italiana: per Fellini sono stato Giacomo Casanova nel ’76. Buffo osservarci sul set di Ella & John: un canadese (io), una britannica con il titolo di Dama di Commenda (Helen), troupe e regista italiani. Il set con voi sa di famiglia. Invece dei bagel a pranzo servite spaghetti. Helen è legata al Salento, ai suoi uliveti. La mia Italia invece passa per il cinema: da Cinecittà a Venezia».
Chi era Fellini per lei?
«L’Amore. Eravamo inseparabili. Credo di averlo conquistato nella scena del ballo, e di sesso, con Rosalba la bambola meccanica. Federico considerava Casanova il film più bello che avesse mai fatto. La scorsa estate, mentre giravo la serie Trust di Danny Boyle a Roma, in via Margutta, incontro una donna. Mi indica e fa: “Casanova!”. Sono scoppiato a ridere. “Vuole vedere la casa di Fellini? Ora ci abito io”. Mi ha fatto entrare. M’è parso di vedere ancora i fumetti e un suo cappello. Fellini mi fece il complimento più bello: “Donald è una statua di cera ripiena di sperma con occhi da masturbatore”».
Lei legge fumetti?
«No, leggo giornali: New York Times e Washington Post. Non guardo serie tv, nonostante mio figlio Kiefer sia in 24. Quando mi hanno offerto la parte del Presidente Snow nella saga Hunger Games ho pensato che avrei potuto svegliare i giovani sopiti davanti ai telefoni. Spero in una loro partecipazione alla vita politica. Abbiamo creato un mondo orribile per i nostri figli: tra venti anni le città saranno sott’acqua, il cibo scarseggerà, le guerre nucleari abbatteranno l’economia. Cosa faremo? Entreremo in un hotel di lusso a ordinare una ciotola di cereali che costa 50 dollari?».
Quanto conta il denaro?
«Per Quella sporca dozzina mi pagarono 600 dollari a settimana, non mi sembrava vero. Anche senza soldi però potevo permettermi un drink con John Lennon. Finii di nuovo sul lastrico in Danimarca dopo avevo lavorato con Orson Welles e Christopher Plummer in Edipo re. Li chiamai per farmi prestare dei soldi. Plummer arrivò con un mucchio di dollari».
Che pensa dei casi di molestie?
«Lo scandalo Weinstein ha aperto una diga. Alla base c’è una profonda disparità uomo-donna. È questo, il male assoluto. Si dice che Hollywood sia un mondo maschio-centrico eppure, secondo la mia esperienza, Hollywood è sempre stata donna. Ho lavorato con attrici e produttrici straordinarie».
La spaventa la morte?
«Per tutta la vita sono stato malato: poliomelite, febbre reumatica, epatite, polmonite, scarlattina, meningite. Sul set de I guerrieri con Clint Eastwood sono persino stato in coma e ho lasciato il corpo per pochi secondi. Si aprì un’enorme porta bianca. Mi sentivo dentro la placenta di un’ostrica blu. Mai stato meglio».
Cosa l’ha convinta a tornare indietro?
«Il lavoro, l’amore e Venezia. Io che ho sempre voluto fare lo scultore, lì mi sento a casa».