la Repubblica, 20 gennaio 2018
Fred Vargas: «Datemi un noir e vi risolverò i problemi del mondo»
«Sono timida, cerco di mostrarmi il meno possibile, rilascio pochissime interviste, evito la televisione e non faccio presentazioni in libreria». Esordisce così Fred Vargas, la regina del noir francese che con le avventure del commissario Adamsberg è diventata celebre in tutto il mondo. Sorseggiando un tè in un bar non lontano da Montparnasse, aggiunge: «Un romanzo deve vivere da solo, senza bisogno della promozione dell’autore. Non m’interessa spingere il lettore a comprare i miei libri, preferisco che decida da solo». Per Repubblica la scrittrice fa però un’eccezione in occasione dell’uscita italiana del suo ultimo romanzo, Il morso della reclusa (Einaudi Stile Libero), che in Francia ha già venduto 450.000 copie. Una storia affascinante e complicata a base di ragni, incidenti misteriosi, storie passate e crimini contemporanei che mette a dura prova l’intuitivo commissario, un personaggio cui Vargas è particolarmente affezionata: «Riproporre lo stesso protagonista di libro in libro non è certo una scelta di comodo, perché bisogna continuamente reinventarlo, arricchirlo, renderlo nuovamente interessante. E ciò non è per nulla facile. A volte mi dico che potrei cambiare personaggio, ma poi ho l’impressione che, se inventassi un altro investigatore, alla fine assomiglierebbe troppo ad Adamsberg. Quindi tanto vale continuare con lui».
Rispetto ai romanzi precedenti, il gruppo dei suoi collaboratori sembra prendere il sopravvento...
«È un modo per riaffermare l’importanza della dimensione collettiva. Non credo che sia possibile risolvere i problemi da soli, credo alla forza del gruppo. Per questo cerco di dare sempre più spazio a quelli che all’inizio erano solo personaggi secondari».
Nel “Morso della reclusa” però il gruppo è scosso da tensioni e spaccature clamorose. Come mai?
«La squadra di Adamsberg non è certo una comunità idilliaca dove tutto funziona a meraviglia. Come in ogni gruppo, non mancano i conflitti e le contraddizioni. Esattamente come accade nella vita, ma in maniera deformata, perché altrimenti non avrebbe senso scrivere un romanzo. La letteratura infatti è un mezzo per smarcarsi dalla vita reale, allontanarsene per guardarla in altro modo e poi tornare a viverla meglio. Non deve essere una copia della realtà, ma un percorso che gioca di continuo con essa».
Si parla molto di violenza sulle donne, tematica che è al centro del dibattito pubblico...
«All’inizio non è che avessi in testa di scrivere un romanzo sulla violenza contro le donne, ma poi il libro ha preso questa direzione per tutta una serie di motivi che il lettore scoprirà leggendo. Detto ciò, per quanto riguarda il caso Weinstein, mi sembra importantissimo che sia crollato il muro del silenzio e che le donne trovino finalmente la forza di denunciare quello che hanno dovuto subire. Bisogna però stare attenti a non confondere tutto, mischiando comportamenti gravissimi e altri che non lo sono. Non vorrei ritrovarmi in una società puritana come negli Stati Uniti dove, se un uomo tiene la porta aperta a una donna, è accusato di machismo. Il problema dei limiti è molto complesso, e non vorrei che – per paura di essere fraintesi – venisse messa al bando ogni spontaneità. Per ora però siamo ancora nella fase della presa di parola, una fase fondamentale per le donne, ma anche per i bambini, che spesso subiscono moltissime violenze nel silenzio generale».
Lei considera il romanzo poliziesco un luogo di risoluzione simbolica dei conflitti. È così?
«Sì, è vero. La risoluzione può essere traumatica oppure più positiva. Io cerco di seguire questa seconda strada, perché non mi piace l’esibizionismo dellaviolenza, come pure non mi piacciono i libri che massacrano il lettore, lasciandolo prostrato alla fine della lettura. Vorrei che alla fine del libro il lettore si sentisse un po’ meglio di quando ha iniziato a leggere. Anche per questo i miei sono noir particolari, dove, più che l’intrigo criminale, contano l’atmosfera, le divagazioni e i personaggi».
Quali sono i suoi autori di culto?
«A parte il fatto che i miei autori preferiti sono Rousseau, Proust e Hemingway, nell’ambito del genere poliziesco, mi piacciono molto James Crumley, Ed McBain e Donald Westlake. Leggo anche gli autori francesi, ma preferisco non citarli per evitare inutili gelosie. Posso solo dire che nel romanzo francese c’è spesso un’intenzione sociale e politica».
Le sembra un errore?
«La finzione letteraria è sempre politica. Un romanzo di Balzac è politico. Nei miei libri non è difficile riconoscere una certa tonalità etico-politica che denuncia il razzismo, le ingiustizie sociali, la dittatura del denaro. La si percepisce, quindi non c’è bisogno di enfatizzarla o di trasformarla in un messaggio preciso. Non mi piacciono i romanzi di denuncia».
Però c’è sempre una precisa visione del mondo...
«Certo, ma nessun messaggio politico esplicito. Faccio un esempio. La difesa del pianeta è un tema che mi sta molto a cuore. Non so se riusciremo a evitare il peggio, dato che vincono sempre le lobby di chi vuole a guadagnare ad ogni costo senza alcuna preoccupazione per gli altri e per la natura. E con la presidenza Trump la situazione non migliorerà di certo. Eppure non uso mai i romanzi per fare comizi e denunciare questa situazione, anche se certo da tanti piccoli dettagli si intuisce come la penso. Se proprio voglio intervenire, scrivo un saggio o un articolo per un giornale».
Come quando ha difeso Cesare Battisti. Non si è pentita di averlo fatto?
«Assolutamente no. Non capisco perché gli italiani continuino dopo quasi quarant’anni ad accanirsi su Battisti. Sono moltissime le persone coinvolte negli anni di piombo che sono sfuggite alla giustizia. E invece si pensa solo a Battisti, come se la sua incarcerazione potesse saldare tutti i conti degli anni di piombo. Ma non salderà un bel nulla, anche perché stanno sbagliando persona. Ho cercato di proporre un’altra visione del suo caso ma nessuno ha voluto ascoltarmi. Lo so che la mia è una posizione che gli italiani non capiscono. Anche il mio editore non è contento. Ma questo è quello che penso».