Il Messaggero, 20 gennaio 2018
Perry Mason o l’utopia del processo perfetto
Erle Stanley Gardner era un giovanotto californiano, appassionato di boxe, che si laureò in legge nel 1909. Annoiato della professione, e probabilmente a corto di clienti, integrò il reddito scrivendo romanzetti pulp per un settimanale locale, a tre centesimi per parola. A chi gli chiese perché i suoi eroi ammazzassero il cattivo solo con l’ultimo proiettile in canna, rispose cinicamente: «Ogni volta che faccio Bang! guadagno tre cents. Se facessi centro al primo colpo, mentre il caricatore è ancora pieno, perderei ogni volta un quarto di dollaro!» Primum edere, deinde philosophari.
Dopo aver sperimentato vari generi polizieschi Gardner, ormai quarantenne, mise a frutto la sua esperienza legale, e inventò quel genere di giallo giudiziario che per decenni avrebbe appassionato lettori e spettatori. Nel 1933 pubblicò il primo romanzo, Perry Mason e il caso delle zampe di velluto, dove compare quello sarebbe diventato l’avvocato più celebre d’America, e forse del mondo. Fu il primo di oltre ottanta romanzi. La televisione ne trasse centinaia di film, inventandosi storie nuove quando quelle originali erano esaurite, e rendendo amabile Raymond Burr che nella Finestra sul cortile di Hitchcock aveva rivestito il ruolo di perfido uxoricida. Il numero dei libri venduti supera le trecento milioni di copie, ed ancor oggi è terzo nella lista dei book series dopo Harry Potter e Goosebumps.
La struttura dei racconti (e dei telefilm) è rigorosamente scandita. Si inizia con un omicidio di maniera, mai troppo cruento. Le indagini sono condotte dall’arcigno tenente Tragg, che partendo da indizi giusti sospetta subito la persona sbagliata, che si rivolge a Perry Mason. L’avvocato fa una personale verifica, essenzialmente psicologica, perché vuole convincersi dell’innocenza del cliente: non accetterebbe mai di assumerne la difesa se lo ritenesse colpevole. Nel frattempo il caso è passato nelle mani del Procuratore Distrettuale, che chiede e ottiene il rinvio a giudizio dell’imputato. Mason inizia le sue indagini, con l’aiuto dell’investigatore Paul Drake e il sostegno della fedele segretaria Della Street. Si arriva al processo, che occupa metà libro e metà film. Agli inizi sembra che l’accusa prevalga, ma l’abile avvocato disorienta i testimoni, sgretola gli indizi, affascina i giurati, confonde il povero tenente Tragg finchè chiama alla barra il personaggio meno sospettabile, che dopo un serrato controinterrogatorio ammette in lacrime la sua colpa. Tutto questo in due o tre udienze.INVEROSIMILE
La vicenda, come del resto tutte le storie poliziesche, è inverosimile: nessun assassino si accascia con tanta facilità in così poco tempo. E nessun poliziotto, né tantomeno un pubblico ministero, conserva il posto (in America) dopo tanti ininterrotti fallimenti. Ma questi dettagli cedono davanti all’abilità dell’avvocato, e del suo creatore, che hanno convertito l’arida prolissità del dibattimento in una successione serrata di esercizi dialettici. In venti minuti, lo spettatore entra nel mondo misterioso del processo penale, cogliendone le caratteristiche essenziali, identificandosi con i vari protagonisti, e gratificando, nell’epilogo, l’innato senso di giustizia che risiede in ciascuno di noi. La confessione del colpevole assolve quella funzione catartica che, almeno in quegli anni, mandava a letto tranquilli i buoni cittadini americani.
In effetti il messaggio finale è ottimistico ai limiti dell’utopia metafisica: la giustizia umana è un catalogo di fallimenti, e la sapienza del Cristianesimo è dovuta ricorrere a quella divina per far quadrare i conti, insegnandoci che se non funziona in questo mondo, andrà meglio nell’altro. Così Perry Mason, raddrizzando sempre i torti, assume un connotato di amabile e irreale ingenuità. Ma è proprio questo il suo segreto: il suo è un personaggio rassicurante non solo perchè fa assolvere il buono e punire il cattivo condannato, ma perché raggiunge il risultato attraverso una competizione trasparente e leale, con il solo uso della ragione assistita da un sistema giudiziario apparentemente infallibile. Perry Mason non è un eccentrico geniale come Sherlock Holmes, Hercule Poirot o Philo Vance. Più che nella deduzione psicologica di potenti cellule grigie confida nella lettura degli atti, nella ricerca delle prove, nella verifica degli alibi, nell’affidabilità dei testimoni e nella pluralità dei moventi. È un bravo avvocato che arriva alla verità nel rigoroso rispetto delle procedure ufficiali, e quindi un esempio di etica e di preparazione professionale che induce a credere nella bontà delle istituzioni civili.
Da allora, il giallo giudiziario è avanzato di successo in successo: Agatha Christie lo ha portato alla perfezione con il suo Testimone d’accusa, di cui Billy Wilder ha scandito le sequenze con una crescente tensione, alimentata dalla straordinaria figura di Charles Laughton, l’avvocato tenace come un mastino e astuto come una volpe, e di Marlene Dietrich, l’ambigua witness for prosecution. Nella cinematografia anglosassone, e in misura minore in quella europea, non c’è regista importante che non si sia cimentato in questo gioco di parti dall’esito non sempre scontato. Venute meno le ferre regole del codice Hays, che imponevano un finale eticamente orientato, oggi i gialli giudiziari consentono sleali trucchi processuali, e persino l’impunità del colpevole. Ma il fascino del processo alla Perry Mason rimane inalterato. VIATICO
Sedotto da questo viatico beneaugurante, il nostro legislatore ha importato, trent’ anni fa, il rito accusatorio che porta ormai il nome dell’avvocato californiano. Lo ha fatto nella convinzione che il processo alla Perry Mason avrebbe reso la giustizia più snella, più efficiente e soprattutto più rapida. Se avesse guardato quei telefilm con maggior attenzione, avrebbe meglio colto, al netto dell’inevitabile trionfo finale, le condizioni che ne rendono possibile lo svolgimento: la nomina elettiva del pubblico ministero; la rigorosa parità delle parti, e l’altrettanto rigorosa separazione delle carriere; la diversità di ruolo dei giurati, che emettono il verdetto, e del giudice che regola il dibattimento e pronuncia la sentenza; la discrezionalità dell’azione penale, ritrattabile quando l’accusa si convince di aver messo in piedi un processo sbagliato; infine, il diritto dell’imputato a tacere, ma l’obbligo, se parla, di giurare e dire la verità. Insomma tutte quelle caratteristiche di pragmaticità e imparzialità che contrassegnano una democrazia consolidata da una tradizione condivisa. Ancora oggi gli americani(e gli inglesi) influenzati o meno dai film di Perry Mason, affermano che il loro sistema giudiziario è il migliore del mondo. Il nostro legislatore invece non ha imparato la lezione: ha preso di quel processo soltanto la facciata, lasciando intatta la sottostante struttura del precedente ordinamento fascista. Ha comprato una Ferrari, mantenendo il motore dell’utilitaria, e la fuoriserie si è grippata. E se Perry Mason entrasse nelle nostre aule giudiziarie, sarebbe lui a farci causa, per usurpazione di brevetto.