20 gennaio 2018
Ritratti scelti di Liliana Segre, nominata senatrice a vita
Marzio Breda per il Corriere della Sera«Aspetti un attimo, dottor Zampetti. Mi dia il tempo di chiedere una sedia alle commesse del negozio dove sono appena entrata e di tirare il fiato. Ripeta tutto, per favore, perché queste sono notizie che a una certa età creano un’emozione così forte da far quasi male».
Così si è sentito dire il segretario generale del Quirinale, l’altro ieri, quando ha raggiunto al cellulare Liliana Segre, a Milano. Doveva sondare la sua disponibilità alla nomina a senatrice a vita decisa dal presidente della Repubblica, e all’altro capo del filo percepiva una persona confusa e stupita. Gli stessi sentimenti, non ancora metabolizzati, che ha avvertito Sergio Mattarella ventiquattr’ore più tardi, al telefono con lei. Poche parole, e stavolta a ringraziare è stato soprattutto lui: «Sono felice che abbia accettato, signora. L’ingresso in Senato di una persona con la sua storia e la sua forza morale avrà un significato importante per l’Italia».
Si riparleranno giovedì prossimo sul Colle, dove si svolgeranno le celebrazioni solenni del «Giorno della Memoria» e dove Liliana Segre sarà interrogata da un gruppo di ragazzi. Racconterà la propria esperienza di ebrea italiana perseguitata in patria, internata in un lager nazista e sopravvissuta. Una parabola drammatica, con un esito miracoloso che toccò a pochi. A ottant’anni dalle leggi razziali imposte dal fascismo, il capo dello Stato voleva che a qualcuno tra gli ultimi testimoni di una così grande tragedia andasse il massimo tributo delle istituzioni. Dimostrando che la Repubblica è anche «fonte di onori». In questo caso, il più grande degli onori.
Il principale criterio di selezione è stato dunque questo. E, dopo il referendum costituzionale di un anno fa – che ha evitato una mezza eclissi su Palazzo Madama che avrebbe stravolto anche l’articolo 59 della Costituzione, quello appunto sui senatori a vita —, al Quirinale hanno cominciato a pensarci. Mattarella, del resto, è sensibilissimo sulla questione ebraica e sull’Olocausto. Da sempre. Basta ricordare che nelle ore immediatamente successive alla sua elezione, il 31 gennaio 2015, prima ancora di giurare in Parlamento, volle visitare in solitudine le Fosse Ardeatine.
Per lui, poi, il laticlavio senatoriale doveva andare a una figura in grado di rappresentare un unicum, rispetto ai campi delle virtù civili più spesso scremati dallo staff del Quirinale. Una personalità la cui testimonianza riverberasse magari il significato di due idee guida del suo ultimo discorso di Capodanno agli italiani: memoria e futuro.
In Liliana Segre tutto si tiene, di questo profilo. Ecco perché il presidente l’ha scelta, pur senza averla mai incontrata. Gli è stato sufficiente soppesare il suo continuo, enorme impegno a raccontare e spiegare «dal vivo», e specialmente ai giovani, ciò che è stata la Shoah. Insomma: in una fase storica come la nostra, di disinvolte smemoratezze e amnesie sovrapposte a un’ignoranza diffusa, ha voluto rendere onore alla pedagogia civile di questa ultima testimone. Ieri la presidente delle comunità ebraiche Noemi Di Segni lo ha ringraziato: «Siamo commossi».
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Stefano Zurlo per il Giornale
Un atto di riconciliazione con la nostra storia. A ottant’anni dalla vergogna delle leggi razziali, Liliana Segre, simbolo di una persecuzione feroce, diventa senatrice a vita. Cosi viene superata idealmente quella stagione di orrori indicibili: si partiva dal binario 21 della Stazione Centrale di Milano, si finiva nei camini di Auschwitz e degli altri lager. Dei 776 bambini italiani deportati solo 25 sopravvissero: Liliana Segre, milanese di famiglia ebraica, classe 1930, è una di questi privilegiati. E su quel miracolo ha fatto germogliare una seconda vita: dal 1990 ha speso tutte le sue energie per raccontare lo sterminio del popolo ebraico alle nuove generazioni che sanno sempre meno e sempre più dimenticano. La testimone della Shoah entra dunque a Palazzo Madama per aver illustrato, come si dice, la patria con altissimi meriti nel campo sociale. Sergio Mattarella le ha telefonato ieri mattina. Lei proprio non se l’aspettava: «È un fulmine a ciel sereno». Poi ha sintetizzato il senso del riconoscimento ricevuto: «La memoria è un vaccino contro l’indifferenza». Segre in decine di incontri e assemblee nelle scuole ha tenuto vivo quel capito inquietante della storia patria e internazionale. Del resto la sua biografia attraversa prodigiosamente quell’interminabile serie di prove disumane. Nel ’38 le leggi razziali travolgono gli equilibri della minuscola ma vivacissima comunità ebraica tricolore. Gli italiani, che si riscatteranno in seguito, le digeriscono con disarmante facilità. Per gli ebrei comincia la discesa verso il precipizio. La piccola Liliana deve lasciare la scuola elementare. È solo la prima umiliazione. Con l’avvento della Repubblica Sociale l’emarginazione lascia il posto ai rastrellamenti e ai trasferimenti forzati nei lager. La tela millenaria della civile convivenza viene strappata: il 7 dicembre 1943 Alberto Segre, vedovo, tenta la fuga con la figlioletta Liliana e due cugini. L’impresa, favorita dall’aiuto di esperti contrabbandieri, riesce ma i gendarmi svizzeri rimandano indietro il gruppetto. È l’inizio della fine. Il giorno dopo i Segre sono catturati a Servetta di Viggiù. La ragazzina tredicenne resta in cella a Varese per sei giorni, poi viene spostata a Como, quindi a Milano: rimane chiusa a San Vittore per altri 40 giorni. Ma anche questa è solo una tappa di una via crucis crudele. Il 30 gennaio 44 Liliana e il papà partono per Auschwitz dal famigerato binario 21. All’arrivo i due vengono separati e non si vedranno mai più: lui muore qualche mese dopo, come i nonni paterni, pure bottino di un olocausto dalle proporzioni colossali. Lei si ritrova a lavorare, come tanti dannati: è impiegata nella fabbrica di munizioni Union. Ma Liliana, numero di matricola 75190, è più forte delle sventure e delle avversità. Sopravvive a tutto e a tutti. Anche alle drammatiche marce di trasferimento, imposte dagli aguzzini a migliaia di prigionieri per sfuggire all’avanzata dell’Armata Rossa. La Segre fa tappa a Ravensbruck, Polonia, poi giunge nel campo di Malchow in Germania. Il 1 maggio 1945 è finalmente libera. Torna a Milano, si sposa, ha tre figli, sembra aver cancellato quel passato. Invece non è cosi: nel 1990 comincia ad arpionare quei ricordi lancinanti, trasformandoli in schegge di cronaca. Una missione contro ogni forma di razzismo che ora diventa ufficialmente patrimonio di tutta l’Italia. «È una decisione preziosa a 80 anni dalle leggi razziali», commenta il premier Gentiloni. Lei assicura: «Porterò in Senato le voci di quelli che non hanno nemmeno una tomba».
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Claudia Guasco per Il Messaggero
Liliana Segre ha la risata cristallina di una ragazza. «Mi chiamano senatrice, ma lo sono da così poco tempo che non me ne rendo conto». E adesso? «Non posso darmi altra importanza che quella di essere un araldo, una persona che racconta ciò di cui è stata testimone». Dell’abisso dell’olocausto, vissuto da dietro il filo spinato del campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau dove è stata deportata quando aveva tredici anni.
Senatrice, come ha saputo della sua investitura?
«E’ stato un fulmine a ciel sereno. Mi sento una donna qualunque, una nonna, e non ho mai pensato a tutto questo. Sapere di essere tra i senatori a vita è un onore e una grande responsabilità. Ero già in contatto con il Quirinale perché il 25 gennaio sarò a Roma per la Giornata della memoria, stamane mi ha telefonato il presidente Sergio Mattarella, fino a oggi l’avevo visto solo in televisione, e mi ha detto che aveva deciso questa nomina. Non sapevo che i senatori a vita fossero solo cinque, sono sbalordita».
Come si trasmette la memoria in un mondo veloce ed effimero?
«Io non sono così ottimista da pensare che il mondo non sia indifferente e anzi pronto a negare il passato per mille motivi, perché fa comodo in molti casi. Adesso interessa il subito, non mi illudo. Anzi, sono abbastanza pessimista. Però è la mia missione, me la sono data quasi trent’anni fa dopo quarantacinque anni di silenzio. Avevo quindici anni quando sono tornata viva per caso, unica sopravvissuta della mia famiglia, e non ho parlato fino a sessant’anni. Poi il tempo mi ha insegnato tante cose, i ricordi sono diventati parte di me e ho deciso che non potevo più tacere. Se mi fermo a pensare mi ritengo una goccia nel mare, ma vado avanti perché il mare è fatta da tante gocce».
La preoccupano i venti nazionalisti che soffiano sull’Europa?
«Sono molto più preoccupata per l’indifferenza generale che non di personaggi politici esagitati. Quando è stato fatto memoriale della shoah al binario 21 della stazione Centrale a Milano mi sono imposta con fermezza affinché sul grande muro d’ingresso si scrivesse la parola indifferenza a caratteri cubitali. Perché e stata più forte della violenza».
L’Italia è un Paese razzista?
«Ci sono delle forme di razzismo connaturate nell’anima di alcune persone, che hanno paura anche del vicino di casa. Sono delle spine nel fianco di un’Italia che invece si è comportata in modo eccezionale rispetto ad altre nazioni nei confronti di tanta povera gente che è arrivata. L’Italia di oggi è molto diversa dall’Italietta delle leggi razziali promulgate ottant’anni fa, sono cambiati i costumi, le abitudini, il modo di pensare. Però il ricordo di essere stata espulsa da scuola a otto anni è stato un trauma che ha segnato tutta la mia esistenza».
La sua vita è testimonianza di libertà. Lei è stata una donna libera?
«Io sono stata molto fortunata. Tornata dal lager ero una povera ragazza che non sapeva comunicare con nessuno, ero diversa e la gente mi trattava diversamente. Poi a diciott’anni mi è successa una cosa bellissima: ho incontrato l’amore e con mio marito siamo stati molti innamorati, una coppia che si teneva per mano anche da vecchi. Abbiamo avuto una bellissima famiglia, tre figli e tre nipoti. Purtroppo dieci anni fa mio marito è morto, ma io sono serena per l’amore la felicità che ho avuto».