Corriere della Sera, 20 gennaio 2018
Il sondaggio di Pagnoncelli: è Gentiloni il più popolare, Bonino seconda, Renzi in coda
Uno dei cambiamenti più rilevanti a cui abbiamo assistito negli ultimi 25 anni è rappresentato dalla forte personalizzazione della politica. Con la crisi dei partiti di massa e l’indebolimento delle appartenenze, il rapporto diretto, immediato tra i leader e gli elettori ha rappresentato in molti casi la chiave del successo.
Quali sono i leader più popolari in questa campagna elettorale? Al primo posto troviamo il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, il cui operato risulta gradito dal 40% degli italiani. L’indice di gradimento, calcolato escludendo gli intervistati che non esprimono un parere, è pari a 44 e risulta significativamente più elevato tra le persone meno giovani, tra laureati, ceti medi, dirigenti e pensionati, studenti e cattolici. Viceversa è meno popolare tra operai, disoccupati, casalinghe e lavoratori autonomi. Il premier oggi può contare sul consenso di quattro elettori su cinque del Pd, di oltre la metà degli elettori di Liberi e uguali e di circa un quarto degli elettori pentastellati e del centrodestra.
A seguire in graduatoria troviamo la new entry Emma Bonino, che parteciperà alle elezioni con la lista +Europa: risulta apprezzata dal 38% degli italiani, con un indice di gradimento pari a 41, più elevato tra donne, casalinghe, ceti medi e dirigenti, residenti nelle regioni settentrionali. È una leader stimata soprattutto dagli elettori di sinistra e centrosinistra ma anche da circa un terzo degli elettori di Forza Italia e M5S.
Al terzo posto si colloca Luigi Di Maio, gradito dal 29% degli elettori, con un indice pari a 33, quindi Salvini con il 27% (indice 29), Berlusconi con il 25% (indice 28), Grasso con il 24% (indice 29), Meloni con il 23% (indice 28) e Renzi con il 20% (indice 23).
In sintesi, escludendo le novità Bonino e Grasso, rispetto a sei mesi fa la graduatoria di gradimento dei leader fa registrare una sostanziale stabilità per Gentiloni (+1), l’aumento di due punti per Berlusconi e Di Maio, il calo di Meloni (-3) e, soprattutto, di Salvini (-5) e Renzi (-6).
Questi dati sembrano delineare una decisa inversione di tendenza rispetto alla stagione nella quale tutto sembrava dipendere dalla figura del leader, dalla sua capacità di relazionarsi direttamente con gli elettori, di interpretarne bisogni e aspettative, determinando spesso un processo di forte identificazione.
Oggi i leader sembrano disporre di un consenso «perimetrato» sia in termini quantitativi – nessuno infatti può contare sul consenso della maggioranza degli italiani, con l’eccezione del presidente della Repubblica Mattarella che, però, è una figura istituzionale di garanzia – sia in termini di profilo dei sostenitori (sono limitati perlopiù agli elettori della propria area politica e specifici segmenti socio-demografici).
Ciò indubbiamente dipende da due aspetti: lo scenario tripolare, che «condanna» i singoli esponenti ad avere più detrattori che sostenitori, e il disincanto prevalente, dopo cinque lustri di alternanza di maggioranze e di leader con caratteristiche talora molto diverse in termini di età, competenza, capacità politica, programmi e valori.
Oggi pochi credono all’«uomo della provvidenza» o all’«uomo solo al comando», per utilizzare due espressioni in voga fino a poco tempo fa. È l’altro lato della medaglia del leaderismo e della personalizzazione della politica: quando il vento cambia, in assenza del ruolo di mediazione esercitato dai partiti, il leader è più esposto ai rischi dell’impopolarità. Il consenso evapora e, in assenza di adeguate contromisure, difficilmente ritorna ai livelli precedenti, perché l’elettore deluso si sente tradito e in lui prevale l’aspetto emotivo rispetto a quello razionale. E la delusione porta spesso a disconoscere anche i meriti del leader la cui popolarità si è appannata.
Forse siamo davvero ritornati alla Prima Repubblica, non solo perché è molto probabile che la maggioranza di governo verrà decisa dopo il voto dalle segreterie dei partiti, ma anche perché il ruolo dei leader risulta ammaccato e meno decisivo rispetto al passato recente. Non a caso oggi il politico più popolare è Gentiloni, che incarna meno di tutti il modello di successo degli ultimi anni, fatto di annunci, stile comunicativo altisonante, confronti muscolari con gli avversari.
Alla luce di questo scenario c’è da chiedersi se l’indicazione del nome del candidato premier nei simboli dei partiti sia più espressione di impudenza o di imprudenza.