Corriere della Sera, 20 gennaio 2018
Che fare con l’Italia dei poveri invisibili?
C’è un dato milanese, tra i tantissimi positivi di un momento d’oro della città, che dovrebbe farci riflettere. Il 40 per cento delle persone che si rivolgono alla Caritas per avere generi di prima necessità, sono nostri connazionali. Molti si vergognano della loro condizione sociale. Tendono a mimetizzarsi. Ciò li rende ancora più penalizzati tra i tanti disperati – la maggioranza immigrati – che si rivolgono ai centri di assistenza. Addirittura vittime dei racket dell’elemosina che distrattamente alimentiamo per strada con le nostre offerte.
Accade nella città italiana oggi più celebrata e ammirata al mondo, possiamo immaginare che cosa succeda in altre parti d’Italia. L’amaro paradosso è che gli italiani precipitati sotto la soglia della povertà assoluta sono meno cittadini di altri. Anche di quelli che non lo sono. Invisibili. Qui però non si tratta di dar credito a pericolosi slogan come «prima gli italiani», né di utilizzare questo argomento a beneficio della retorica anti immigrati. La politica di accoglienza – giustamente più regolata nei flussi ultimamente – è una cosa. Il contrasto alla povertà, uno dei segni distintivi di un Paese civile, un’altra. Non può e non deve discriminare a seconda del luogo di nascita. Ma nemmeno finire per penalizzare i connazionali più sfortunati. Altrimenti dovremmo constatare, dopo tante discussioni sullo ius soli, che questo diritto si può perdere insieme al reddito.
La povertà assoluta riguarda, secondo i dati 2016 dell’Istat, il 6,3 per cento delle famiglie, poco meno di cinque milioni di persone. La povertà relativa – secondo indicatori di consumo – investe il 10,6 per cento delle famiglie, 8 milioni e mezzo di individui. La tendenza sembra essersi stabilizzata. La vera emergenza riguarda i minori delle famiglie in difficoltà: gli invisibili tra gli invisibili. Uno studio di Andrea Brandolini (Banca d’Italia) segnala le conseguenze negative di questo triste fenomeno, non solo sulla salute e l’educazione dei singoli, ma anche sul capitale umano di un Paese. Il costo della povertà dell’infanzia è stimato all’1 per cento del Prodotto interno lordo (Pil) nel Regno Unito e negli Stati Uniti. È presumibile che in Italia non sia dissimile.
Tra i meriti dei governi Renzi e Gentiloni (sì, li può ammettere anche un critico come chi scrive) vi è un deciso cambio di passo nel contrasto alla povertà. Con l’introduzione del Reddito di inclusione (Rei), un nucleo familiare di cinque persone può avere fino a un massimo mensile di 534 euro, versati su una speciale carta di credito. I requisiti economici richiesti sono un livello di Isee (Indicatore della situazione economica equivalente) inferiore ai 6 mila euro l’anno. L’assegno non è compatibile con altri sussidi. È ridotto se esistono altri redditi e condizionato alla sottoscrizione di un patto che prevede impegni di ricerca e riqualificazione del lavoro. Il Rei diventerà, a tutti gli effetti, una misura universale, cioè non condizionata dai requisiti familiari, a partire dal primo luglio di quest’anno. Riguarderà 2 milioni e mezzo di persone, la metà di quelle in povertà assoluta, di cui si calcola che soltanto un quarto sia costituito da stranieri residenti (che sono l’8 per cento della popolazione). Una misura che costa 2 miliardi quest’anno; 2,5 nel 2019 e 2,7 a partire dal 2020.
L’Alleanza contro la povertà (che raggruppa diversi soggetti sociali e associazioni di volontariato), cui si deve l’idea del Rei, insiste perché, nell’arco della prossima legislatura, il beneficio possa essere esteso a tutte le persone sotto la soglia di povertà assoluta. Il costo però sarebbe assai elevato: circa 7 miliardi, cioè quattro in più. Non sappiamo, specie guardando alle fragili dinamiche dei conti pubblici, se l’obiettivo sia sostenibile. Ma sarebbe già un successo dell’Italia civile se tutte le forze politiche in campo confermassero il Reddito d’inclusione, per la prima volta in Italia a carattere universale a partire dal primo luglio e lo considerassero una sorta di vincolo bipartisan. Se invece dovesse saltare, anche in attesa di migliorarlo, le conseguenze sarebbero gravi. Molte persone tornerebbero nella condizione peggiore dell’indigenza. I nostri concittadini in difficoltà, e non solo loro, si sentirebbero ancora più esclusi, beffati.
Gli schieramenti delle prossime elezioni stanno affinando in materia le loro proposte. In quella del Pd sembra sia previsto il raddoppio delle risorse nell’arco di cinque anni e il sostegno a tutta la platea di coloro che sono sotto la soglia di povertà assoluta. Oltre all’attivazione di vari servizi di sostegno e ricollocazione lavorativa. Il centrodestra punta su un reddito di dignità che teoricamente dovrebbe coprire l’8 per cento delle famiglie con l’attivazione di una imposta negativa. Ovvero un sussidio monetario per chi è al di sotto di una certa soglia, in sostituzione di altri programmi assistenziali, in modo da ridurre anche la complessità burocratica. Nel programma di Forza Italia è prevista anche la riattivazione della social card – che non fu certo un successo ai suoi tempi – e il dimezzamento della povertà in cinque anni. Le risorse arriverebbero da una non ben chiara, nei suoi aspetti tecnici, operazione di cartolarizzazione (cioè trasformazione in titoli negoziabili) «dei beni confiscati in via definitiva alla mafia che, secondo le stime, ammontano a una cifra non inferiore ai 25 miliardi». Non c’è un calcolo del costo perché, secondo Forza Italia, va valutato tenendo conto degli effetti della proposta di introduzione della cosiddetta flat tax, tassa piatta.
La proposta di reddito di cittadinanza dei Cinquestelle riguarda sulla carta il 19 per cento delle famiglie con un trasferimento medio calcolato in 480 euro. Il costo secondo il Movimento sarebbe di 17 miliardi, di cui 2 per i servizi e i centri per il recupero al lavoro. Per Massimo Baldini e Francesco Daveri, che hanno confrontato su Lavoce.info i costi dei vari programmi, toccherebbe invece i 29 miliardi, una cifra simile a quella stimata per il reddito di dignità. I Cinquestelle si proporrebbero di tagliare una serie di trasferimenti dello Stato alle imprese, riducendo la spesa pubblica, in particolare quella militare.
Le cifre in gioco, come si vede, sono imponenti. Il meglio in questa materia può essere nemico del bene, oltre che una mina pericolosa per i conti pubblici. La formula del Rei appare più realistica e concreta. Un passo alla volta, dosando le risorse, rispetta tutti. Soprattutto perché non basta il semplice trasferimento monetario che può creare l’illusione di un diritto perpetuo all’assistenza. L’accompagnamento è fondamentale. La povertà si vince quando le persone sono messe in condizione di non chiedere più, di ritornare a essere, nel limite del possibile, orgogliosamente indipendenti. Ecco perché l’accompagnamento – che crea responsabilità e stimola l’orgoglio del riscatto – è persino più importante del sostegno al reddito. Interromperlo, distrugge quel poco o tanto che è già stato fatto. L’Italia ha poi la fortuna di avere una rete di volontariato preziosa e capillare che può contribuire a riannodare i fili di una cittadinanza indebolita dalle perdite di reddito e dalle disuguaglianze. Un investimento, quello del contrasto alla povertà, che fa bene a tutti, anche a chi non ne ha bisogno.